Quella che vedete sopra è una foto che ho scattato stamani su una spiaggia dell'Isola d'Elba.
E' una fortezza/castello/pista costruita da una volenterosa e paziente mamma con i suoi due figlioletti, una femminuccia di 6/7 anni e un maschietto di 4/5.
Alla fine delle fatiche, il maschietto, alzandosi da terra, con le mani ancora sporche di sabbia, ha composto sul visino paffuto un'espressione di estrema soddisfazione e ha affermato con enfasi:
"Ecco la macchina del fango!"
Non so dove abbia sentito quell'espressione, se alla televisione, in un discorso dei genitori, o in un'altra qualsiasi occasione.
Se si riferisce a quello che penso - e che state certamente pensando anche voi - le spiegazioni possono essere diverse.
Come diversa è la società che costruiamo giorno dopo giorno, stando assieme.
Sentire quelle parole in bocca ad un bimbo innocente di pochi anni di vita mi ha fatto pensare.
Il contrasto tra la sua gioia infantile e il vero significato, infame, che quelle parole hanno assunto negli ultimi tempi per merito di una certa società, di un certo modo di fare politica, di un certo modo di interpretare il giornalismo, ha risuonato in me come un singolare campanello d'allarme.
Perché quella macchina del fango non entri davvero nel nostro modo abituale di vedere le cose, di pensare alle persone - prestateci attenzione: in realtà sta già avvenendo - occorre invertire immediatamente la rotta di un processo già in atto.
Quel modo di pensare per cui non esistono grigi o sfumature; tutto è solo bianco o nero.
E l'etica imperante, quella che davvero fa la differenza, è quella del particulare, in cui contiamo solo noi stessi, con la nostra storia e la nostra individualità e gli altri sono "i diversi", gli avversari da sconfiggere, i nemici da abbattere.
L'Italia non può essere solo questo.
Non deve esserlo.
Ne va del futuro di quel bambino e di quelli come lui.