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mercoledì 14 dicembre 2011

Il diritto all'autodeterminazione.

Dopo sei lunghi anni di calvario, Leah Beth aveva chiesto ai medici di interrompere le cure.

La chemioterapia, quella che doveva aiutarla a stroncare il suo cancro, le impediva oramai di vivere una vita normale, considerata l'entità dei disturbi invalidanti che doveva sopportare per effetto dei farmaci.

L'ospedale, non volendo sospendere i trattamenti, aveva minacciato azioni legali.

Ma alla fine aveva ceduto, consentendo a Leah Beth di vivere dignitosamente il tempo che le restava. 
Senza cure.

Cinque anni dopo quella decisione, la settimana scorsa Leah Beth si è spenta nel suo letto, con al fianco i suoi genitori.

Aveva 13 anni

Ieri si sono svolti i suoi funerali.

Ai quali Leah Beth aveva chiesto che nessuno fosse vestito di nero: voleva colori sgargianti. 
Leah Beth Richards

E così è stato. 

La storia di Leah Beth ci insegna che il diritto all'autodeterminazione, davanti alla vita come davanti alla morte, non è certo cosa da liquidare col silenzio della fede.

Un silenzio che almeno qui in Italia è sempre più rumoroso ed ingombrante.

E che continua ad intimidire chi vorrebbe parlare, decidere, legiferare su tematiche fondamentali come quella dell'accanimento terapeutico e dell'eutanasia.

Un silenzio, si badi bene, che se non avremo la forza di rompere, rischia di diventare una volta di più, come altre nella storia, qualcosa di più che rumoroso ed ingombrante.

Rischia di diventare, semplicemente, colpevole.

[Chi vuole lasciare un saluto a Leah Beth ed accendere per lei una candela virtuale, può farlo qui.]

[... le mie riflessioni sull'argomento, invece, continuano qui...]