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giovedì 15 marzo 2012

La fine del compromesso tra capitalismo e democrazia.

John Maynard Keynes

[Dal Prof. Woland per la Città Invisibile]

Credo sia molto utile per capire le drammatiche vicende economiche che agitano negli ultimi decenni il nuovo e il vecchio continente parafrasare nel modo più semplice e schematico possibile l'articolo di Nadia Urbinati - docente di Teoria politica alla Columbia University di New York - apparso su La Repubblica del 9 febbraio.


In seguito alla terribile crisi del '29 Keines dettò il più importante compromesso storico del secolo scorso: quello tra capitalismo e democrazia.
In cosa consisteva questo compromesso? È presto detto: il pubblico anziché assistere i poveri li impiegava oppure promuoveva politiche sociali che creavano impiego.
Ne conseguiva un incremento della domanda e una ripresa dell'occupazione, cioè una maggiore giustizia sociale con il seguente esito:

- I poveri diventano davvero i rappresentanti dell'interesse generale della società.
- Le forze politiche, cioè i partiti politici che rappresentano le forze sociali, possono gestire l'allocazione delle risorse economiche (beni sociali e primari, servizi).

È importante notare che alla base del compromesso c'era una delega ai partiti: le classi sociali rinunciavano a fare da sole.

Ora quel tempo è finito. Il compromesso annullato.

Le classi sociali riprendono nelle loro mani le decisioni e ciò vale soprattutto per la classe che detiene il potere economico. Di qui il declino dei partiti.

L'ideologia keynesiana ha funzionato fintanto che l'accumulazione del capitale si traduceva in investimenti e ampliamento del consumo il cui combinato disposto incrementava la giustizia sociale.

La rottura si ha negli anni '80: viene applicata una politica di diminuizione  delle tasse per consentire una nuova ridistribuzione ma stavolta a favore dei profitti. Agli elettori tale politica viene giustificata come stimolo agli investimenti ma invece le risorse liberate in questo modo non finiscono in investimenti produttivi (e quindi in lavoro) bensì in investimenti finanziari.

Da allora dunque l'accumulazione ha sciolto i lacci e lacciuoli imposti dalla democrazia: il lavoro deve tornare ad essere un bene solo economico, libero quindi dalle catene del diritto o della politica.

Questo e non altro è il significato della battaglia sull'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Un significato solo simbolico.

Il potere economico vuole affermare il principio: la regia della nuova democrazia non deve più essere la legge, il legislatore, lo Stato, ma il mercato.

L'articolo 18 è un fossile, ciò che resta del compromesso, dunque deve essere abolito. Ecco perché va eliminato ed ecco perché il sindacato - ben conscio della posta in gioco - lo difende strenuamente.

Ma che tipo di società sarà quella in cui il profitto e l'accumulazione la fanno da padroni senza vincoli alcuni?