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martedì 17 gennaio 2012

Segnali di fumo: quando il Parlamento fa l'indiano.

[Dal Prof. Woland per la Città Invisibile]


La settimana scorsa, come è noto, la Camera d'appartenenza ha respinto l'autorizzazione all'arresto avanzata dal magistrato nei confronti dell'On. Nicola Cosentino.

Dalle pagine di questo blog si è già parlato delle principali contraddizioni di quel voto e dell'equivoco di fondo su cui si è giocato.

A me preme giusto fare un paio di riflessioni aggiuntive.

La Camera ha agito in base all'articolo 68 della Costituzione che così recita:
...Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se sia colto nell'atto di commettere un delitto per il quale è previsto l'arresto obbligatorio in flagranza.
L'articolo 68  è in vigore dal 14 novembre 1993, essendo stato modificato con legge costituzionale. 
Nella sua formulazione originaria esso prevedeva l'autorizzazione per sottoporre a procedimento penale un parlamentare.
Sappiamo che l'articolo fu modificato in seguito all'indignazione popolare che accompagnò i noti fatti che furono battezzati tangentopoli.

Perché i padri costituenti avevano sentito la necessità di una tutela così forte per i parlamentari?
La risposta è semplice.
La Repubblica Italiana nasceva dalle ceneri di una dittatura.
Forte dunque era ancora il timore che si potesse attentare alla libertà di un deputato, eliminandolo dalla scena politica, mediante una persecuzione giudiziaria.
Ecco dunque la necessità di attribuire alla Camera d'appartenenza del parlamentare il diritto - dovere  di verificare che il magistrato non fosse in malafede.
Verificare cioè l'assenza del cosiddetto fumus persecutionis (che mai, si badi, viene nominato esplicitamente nelle norme).

Come detto, l'articolo fu modificato in senso restrittivo a furor di popolo.
Ora l'autorizzazione riguarda non già l'avvio del procedimento penale, ma la tutela di certe restrizioni della libertà, in primis l'arresto e la conseguente detenzione.

L'articolo 68, nell'introdurre tali tutele, sancisce di fatto una violazione dell'articolo 3 della Costituzione che afferma:
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
Sia ben chiaro: non parlo da costituzionalista, ma da matematico.
Se la Costituzione fosse una teoria formale matematica, si potrebbe tranquillamente affermare che tale teoria non è consistente.

Ora, benché sia del tutto ovvio che la vita quotidiana non coincide con una teoria matematica, devo dire che tale contraddizione resta indigesta e che il nuovo articolo appare, a mio parere, più indigesto di quello originario.
Infatti, se accettiamo che sia avviato il procedimento penale e che siano compiute le relative indagini, per quale ragione il parlamentare dovrebbe avere il privilegio di non essere arrestato qualora se ne ravvedano i presupposti di legge?
Perché un impiegato di concetto dovrebbe essere privato della libertà se si sospetta che sia un delinquente, mentre si dovrebbero lasciare mani libere ad un potente che per di più ha funzioni legislative? 
Lascio aperti tali quesiti e vengo alla questione del fumus.

Se ci si dà la pena d'ascoltare le varie interviste e le dichiarazioni in aula si resta interdetti.
Di solito chi vota contro l'arresto sostiene candidamente che "nelle carte non c'è nulla".
Il nostro parlamentare dunque, "peritus peritorum", con il suo diploma alberghiero (On. Meloni), con la sua laurea in medicina (On. Domenico Scilipoti), con la sua licenza di scuola media inferiore (On. Emanuela Munerato), con il suo diploma di perito tecnico industriale (On. Antonio Boccuzzi), studia i faldoni e pronuncia la sentenza.
Converrete che non può essere questo ciò che suggerisce la Costituzione.
Non spetta ai parlamentari fare il processo in aula.

Il solo procedimento possibile è il seguente: occorre dimostrare che notizie se non certe almeno molto plausibili mettano seriamente in forse l'imparzialità di un preciso magistrato.
Solo di questo si deve discutere, portando, se non prove, indizi di gran peso.

Il fatto, come è accaduto per l'On. Nicola Cosentino, che la richiesta d'arresto sia l'esito finale del giudizio di un folto stuolo di magistrati terzi (gip, gup, tribunale della libertà, tribunale del riesame) appare già di per sé una dimostrazione dell'assenza del fumus persecutionis. 

Comunque  poiché in casi come questo la posta in gioco è la salvaguardia di una nazione e di un popolo - seriamente a rischio se un deputato viene sospettato di essere il referente nazionale di un clan della Camorra - sarebbe forse auspicabile che il Parlamento stabilisse chiaramente quali siano i criteri per l'accertamento della supposta malafede giudiziaria.

Finché questo non accade ci si deve attenere ad un principio di presunzione: in mancanza di credibili, specifici indizi di parzialità deve prevalere la parola del giudice (non, attenzione, del pubblico ministero, cioè dell'accusa).

Il resto non è altro che manfrina politica.