Il Sassolungo della Val Gardena. |
[Dall'amico gardenese Marco Forni, lessicografo e traduttore, riceviamo e volentieri pubblichiamo]
La morte e il morire: due parole mute che continuano a fare un silenzio
assordante dentro di noi.
Meglio non pensarci, parliamo d’altro: finalmente è arrivata la neve e
inizia la stagione.
In vita taluni tentano di buttare la chiave del loro stare al mondo
nelle urne di chi non c’è più. Requiescantinpaceamen
e andiamo avanti, non c’è tempo da perdere.
Altri, pervasi da velleità d’eternità, traducono maldestramente la
locuzione dei frati trappisti memento
mori con: ricordati di morire, come a dire che gli smemorati corrono il
rischio di vivere in eterno.
Una delle poche certezze della vita è che prima o poi toccherà anche a
noi.
Fino a un attimo prima però noi ci ritroviamo, volenti o nolenti, a
dover fare i conti non solo con le agenzie di rating sparse per mari e Monti,
ma soprattutto con la morte degli altri.
La morte di persone a noi lontane possono intirizzire i nostri sensi il
tempo di una notizia. La perdita di una persona cara, invece, ci sconvolge, ci
lascia senza parole. Veniamo colti dalla paura. Il credo nell’esistenza di un
aldilà si fortifica o s’indebolisce a seconda dei canoni che ci sono stati
inculcati dalla morale comune.
Perché ci lasciamo sopraffare da un senso d’impotenza, di perdita
irreversibile?
Forse perché continuiamo ad aggrapparci disperatamente alla
fisiognomica, alla corporeità, dei sentimenti, degli affetti. Dobbiamo poter
toccare, vedere, per riuscire a „credere“. Quando il corpo si svuota
dall’identità definita che gli è stata appiccicata addosso da un ufficio
d’anagrafe, sembra esaurirsi tutta la sua ragion d’essere.
Per chi resta a guardare e senteziare parole prese a prestito, permane
la sensazione di una paura fottuta di quella che chiamiamo morte (o forse è il „morire“
con dolore che ci terrorizza di più). La nostra morte è un accadimento al quale
non possiamo più renderci partecipi. Sono altri che pasticciano la
sceneggiatura e assumono il ruolo di protagonisti, interpreti della nostra
morte, per riaffermare il senso acquisito della propria vita.
È consolatorio barricarsi dietro il diritto alla vita; un alibi per
sentirsi dalla parte del giusto e non andare a intralciare pensieri pronti
all’uso. L’accanimento terapeutico è rispetto della vita o è un modo per
tentare di accomodare la propria coscienza?
Affidare una persona cara alla morte, lasciarla andare, può tradursi in
un estremo atto d’amore. Continuerà a raccontarsi, a riproporsi sotto un altro
sembiante dentro di noi.
Il sorriso carezzato di serenità di Leah Beth non è acconciato. È stato
plasmato dal dolore e dalla sofferenza; esprime un senso di pulizia e mi porta
a dire: „Lasciatemi andare, devo sbrigare una faccenda, poi torno“. Ed è già
tornata, continua a raccontarsi a noi e a scalfire le certezze, usa e getta,
che ci lasciamo cucire addosso per colmare le nostre inquietudini.
Leah Beth voleva colori sgargianti e sorrisi al suo funerale. Lei ha
avuto il tempo di andare incontro al buio; il buio che contiene tutti i colori,
se ti accorgi di poter accendere la luce e di regalarla agli altri prima che si
spenga. Le nostre certezze possono essere invalidanti. Sono riempitivi per
convincerci (illuderci) di stare sempre dalla parte della ragione. Sono gli
altri dalla parte del torto.
È il dubbio che ci rende più umani, più perfettibili.
Lo stare al mondo può risolversi nel quanto, l’esserci nel come.
E se questo fosse l’ultimo giorno della mia vita come vorrei viverlo?
Quali conti mi andrebbe di far quadrare?
Forse semplicemente riconciliarmi con gli altri e con me stesso.
Il pensiero della morte può essere ingannevole se ci fa dimenticare di
vivere e di coltivare gli affetti, i sentimenti, i dubbi che costellano la nostra
esistenza.
Socrate vuota impassibile la coppa del veleno e va incontro serenamente
al proprio destino di morte decretato dai benpensanti. Platone gli mette in
bocca parole intagliate nella roccia: „Ma ecco che è l’ora di andare: io a
morire, voi a vivere. Chi di noi due vada verso il meglio è oscuro a tutti
(ometto volutamente le ultime parole che ognuno ha il diritto di aggiungere o
togliere: fuori che a Dio).“
Leah Beth ci affida un lascito prezioso, quello di continuare a
coltivare l’umanità della persona e il senso della misura. La morte è una
parola muta, che non si affronta con il silenzio assordante di certezze
precostituite.
È salutare pensare che il mondo, da che mondo è mondo, va avanti imperterrito con o senza di noi. E che la
morte (degli altri) ci accompagni lungo il cammino entusiasmante che ci siamo
abituati a chiamare vita.
Un saluto da Selva e dal Sassolungo silente ammantato di neve.
Marco Forni