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mercoledì 3 agosto 2011

La scuola e le rivoluzioni copernicane.

[Dal Prof. Woland per la Città Invisibile]


L'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico ha rivolto agli insegnanti un esplicito e chiaro invito"Non bocciate, è dannoso".
Ho già riassunto in un post  le serie argomentazioni dell'OCSE, qui voglio tornare in generale sull'argomento poiché insegnanti, educatori, uomini di cultura hanno avuto un vigoroso soprassalto e molti hanno dichiarato la loro perplessità - o addirittura contrarietà - nell'immaginare una scuola senza filtri, senza selezione (lo sconcerto degli insegnanti è ben rappresentato dall'ottimo libro di Paola Mastrocola, Togliamo il disturbo, Guanda 2011).

Io sono persuaso che non dobbiamo temere i cambiamenti, anche quelli più radicali e  dobbiamo rivedere le nostre convinzioni.

Per inerzia siamo portati a respingere il nuovo (d'accordo: esiste anche l'altro lato della medaglia che ci spinge qualche volta ad accettare con entusiasmo il nuovo anche quando forse non dovremmo, ma questo è un altro discorso) ed ecco pertanto una serie di perplessità: no alla biro al posto della classica penna, no alla calcolatrice, no al computer, no ad Internet, no alla televisione, no al cellulare e così via. 

Tutte battaglie perse, ne converrete, e aggiungerei per fortuna. Non c'è bisogno di essere indovini per leggere il futuro: basta guardarsi indietro ed imparare dal passato. 
Si possono fare migliaia di esempi di rivoluzioni "copernicane" contrastate ostinatamente dai nostri avi: il sistema eliocentrico - la rivoluzione copernicana per antonomasia - è addirittura costata la vita ad alcuni suoi fautori.

Per secoli e secoli la medicina ha riconosciuto nella disidratazione il più importante ausilio terapeutico: clisteri, sanguisughe, salassi, purghe etc. erano le primissime prescrizioni (pensate a Le Malade imaginaire di Moliere). 
Poi la rivoluzione copernicana: ora il primo intervento medico consiste sostanzialmente nell'idratare.

Citerò un solo altro esempio.

Uno studio della Columbia University afferma che la possibilità offerta dalla rete di rinvenire ogni tipo di informazione in pochi istanti sta mutando in modo radicale il modo di immagazzinare i dati nel cervello. 

Ciò che conta non è più archiviare l'informazione bensì il luogo dove essa può essere reperita. 

Scandalo? 

No, dice il neuroscienziato Stefano Cappa (Università Vita-Salute San Raffaele di Milano): l'essere umano ha sempre fatto ricorso agli strumenti più svariati per rinforzare la memoria. Google è solo uno dei più avanzati.

"Internet sta cambiando le nostra capacità cognitive: tra quindici anni non saremo più pigri, useremo invece la memoria in modo più funzionale, veloce ed efficace."

Voglio dire con queste considerazioni che cultura e competenze sono funzioni del tempo ed è sbagliato pensare che siano invece delle costanti, cioè che siano invariabili nel tempo.

Torniamo alla scuola.

Quando un insegnante di liceo dice che i ragazzi oggi non imparano il latino e non sono in grado di apprezzare Catullo possiamo certamente dispiacerci. 
Ma da un punto di vista evolutivo non c'è nulla di sorprendente. 
Ci lamentiamo, infatti, se un  ingegnere oggi non sa accendere il fuoco in una foresta servendosi  di due bastoncini? 
Chi saprebbe su due piedi emulare il grande Eratostene (vissuto ad Alessandria più di due millenni or sono) e calcolare  il raggio della terra?

Un pool di scienziati contemporanei non è riuscito a ripetere la straordinaria impresa di Giulio Cesare (De bello Gallico, Libro IV) consistente nel costruire in soli dieci giorni un ponte sul fiume Reno, il fiume più grande che i Romani avessero mai visto.

Dunque dobbiamo accettare che le cose cambiano. 

L'altro giorno rileggendo il capolavoro di Giorgio Bassani (Il giardino dei Finzi Contini) mi sono imbattuto in una pagina che mi ha fortemente sorpreso:  descriveva esattamente le emozioni che provavo io quando - adolescente - andavo a vedere "i quadri" scolastici. 

Che soddisfazione vedere scritto accanto al proprio nome in bella grafia "promosso" e di seguito una teoria di bei voti. I compagni, specie quelli rimandati o bocciati, guardavano con invidia i pochi eletti ed il momento era solenne.

La vicenda del romanzo si colloca nel 1929, la mia nel 1959: a distanza di trent'anni nulla era ancora mutato. La scuola era la vita. 
Quando il protagonista del romanzo - abituato fin ad allora ad eccellere -  vede nei quadri un cinque (in rosso) e realizza di essere stato rimandato in matematica si dispera e pensa addirittura al suicidio.

Allora la scuola era la strada maestra per l'affermazione personale. Rappresentava inoltre il rito di iniziazione che il giovane doveva superare per essere accettato nella società degli adulti. 
Le regole di questo rito erano severe ma arbitrarie. 
Bastava ignorare un aoristo per essere cacciati dall'eden. 
Se un esordiente giornalista avesse scritto in un articolo "manu militare" anziché "manu militari" - sbagliando dunque l'ablativo - avrebbe finito lì la sua carriera. 

Fino a qualche tempo prima non si poteva accedere alla laurea in medicina con la maturità scientifica. 

Regole giuste o pregiudizi? 

Conosco grandi luminari della medicina che hanno la maturità scientifica. 

La famosa politologa Nadia Urbinati - titolare della cattedra di Scienze Politiche alla Columbia University di New York - si è diplomata all'Istituto Magistrale di Rimini. 

Avesse frequentato il liceo classico poteva accadere che un zelante professore di greco non le perdonasse un errore di troppo - che so - sulla "legge sotera" e magari avremmo perso una grande scienziata.

In una intervista alla Repubblica (25 luglio 2011) il grande scrittore, saggista, critico letterario George Steiner (insegna a Cambridge) dice:
"bisogna sapere che il novanta per cento degli americani, parlando, usa 380 parole d'inglese, mentre nelle opere di Shakaspeare ce ne sono 24.000".
Come può allora  un simile popolo imperare sul mondo intero?
Che dire?

Credo che si possa concludere dicendo che la cultura e la competenza richieste "oggi" dalla società non siano più in linea con le aspettative dei docenti meno giovani. 

La scuola non è più un rito d'iniziazione. 

Compito degli insegnanti è soprattutto educare alla vita bambini e giovani - questo sì - attraendoli alla cultura, operazione che può riuscire solo se si amano gli alunni e se si è capaci di affascinarli. 
Aggiungerei che quali che siano le discipline insegnate queste devono essere impiegate soprattutto per la costruzione del cittadino e della persona.

Un compito davvero straordinario quello affidato agli insegnanti del duemila, che naturalmente richiede grandi competenze e meriterebbe una vera selezione con retribuzioni adeguate. 

Ciò dobbiamo pretendere come cittadini per i nostri ragazzi di oggi e di domani.

Finisco osservando che lungi da ogni populistica interpretazione lo stato dovrebbe secondo me chiamare ad una partecipazione economica tutti i genitori che abbiano un reddito medio alto. 

Ma questo è un altro discorso.