Questo sarà un post lungo.
Abbiate pazienza. Avevo bisogno di spazio, di respiro.
Domenica scorsa quattro ragazzi (di cui tre minorenni), di ritorno da un
rave party,
hanno pestato due carabinieri che li avevano trovati positivi all'alcol test in seguito ad un controllo.
Uno dei carabinieri ha subito gravi lesioni cerebrali ed è in prognosi riservata. L'altro rischia di perdere un occhio.
Chi ha osservato a caldo i giovani li ha descritti come "
impassibili".
Il Gip che ha convalidato l'arresto del maggiorenne
ha definito il gesto "
lucido e spietato".
Nell'
Amaca di ieri, su Repubblica, Michele Serra commentava il fatto osservando che forse, in questi casi, ci si interroga fin troppo sulle "
responsabilità degli adulti" e poco sulle "
responsabilità dei ragazzi".
Confesso che non mi è chiaro il senso del ragionamento: in cosa dovrebbe tradursi, infatti, questo "pensare di più alle responsabilità dei figli" da parte degli adulti?
Ad alzare le mani perché, essendo la responsabilità un peso che ciascuno deve sentire su di sé, individualmente, se il ragazzo non lo sente noi adulti non possiamo farci nulla?!
Ad una prima lettura, in effetti, sembrerebbe proprio questa la logica conseguenza del ragionamento di Serra, avvalorata da parole come queste:
Né la migliore società né il miglior genitore né la migliore scuola possono governare fino in fondo le azioni di un ragazzo e determinarne il destino.
Sarà, ma vogliamo convenire che sebbene queste non siano condizioni sufficienti, di certo
sono necessarie?
Se pure è vero, cioè, che niente e nessuno può governare "fino in fondo" le azioni di chicchessia, ciò non può comunque implicare
la rinuncia ad un'approfondita riflessione sulle nostre responsabilità di "adulti" (intesi come famiglia, società, scuola, media, ecc.).
Partiamo da un presupposto fondamentale.
Nella vexata quaestio su cosa influenzi il carattere in una persona, se la natura (i geni) o invece l'ambiente, la scienza è oggi sostanzialmente concorde nel ritenere che il carattere di un individuo si formi grazie alla concomitanza di entrambi i fattori.
Lo psicologo Charles L. Brewer riassumeva questa convinzione con una efficace metafora: "heredity deals the cards; environment plays the hand", ovvero"l'eredità dà le carte, l'ambiente gioca la mano".
Premesso ciò, è del tutto evidente che se il nostro raggio d'azione nel campo dell'eredità è pari a zero, d'altro canto l'unica area all'interno della quale possiamo muoverci - e che dunque possiamo tentare di presidiare - è appunto quella dell'ambiente.
La riflessione che possiamo attivare nel caso di episodi aberranti come quello in questione è dunque la seguente: che ruolo ha giocato l'ambiente nelle azioni violente di questi "impassibili" giovani?
E qui vengo al punto.
A me non pare che la società in cui viviamo (l'ambiente) sia solita lanciare messaggi altamente educativi (tutt'altro); né tanto meno ho l'impressione che noi genitori di oggi possediamo quella competenza istintuale (quasi un ossimoro, lo so: è voluto) necessaria per educare al meglio i propri figli.
Serra dice:
Ci rimproveriamo di “parlare poco ai figli”, ma i nostri genitori con noi parlavano anche meno. Era scontato che toccasse a noi (a scuola, con gli amici, poi nel lavoro) essere ciò che eravamo, diventare ciò che eravamo capaci (o no) di diventare.
Ebbene, io credo che la divaricazione tra i due modelli familiari di cui parla Serra ci sia, ma che il dialogo con la D maiuscola non c'era allora, come non c'è oggi.
Non è dialogo, oggi, quello dei genitori che fanno scegliere sempre e comunque tutto ai propri figli, rinunciando al difficilissimo e faticosissimo ruolo di "guida".
Non è dialogo, oggi, quello che vede genitori iperprotettivi ergersi a baluardo dei propri figli contro il mondo intero (classico esempio: la faida tra scuola e famiglia), mostrandogli che il centro del mondo è il loro ego e null'altro.
Non è dialogo, oggi, dichiararsi "amici" dei propri figli, là dove per amicizia si voglia intendere l'annullamento dei ruoli, uno dei modelli più pericolosi che si possa offrire a livello educativo; modello che i propri figli riportano nella realtà (zeppa di ruoli e di gerarchie) con conseguenze il più delle volte nefaste: incapacità di inserirsi in un contesto lavorativo; impossibilità di lavorare in gruppo; insofferenza verso le responsabilità; incapacità di agire una sana competitività, pur lavorando in gruppo, e via dicendo.
Certo, non era dialogo neppure quello cui allude Serra pensando ai genitori della sua generazione.
Ma tra i due estremi di 'non dialogo', quello di una volta rappresentava un mondo di silenzi e di regole, familiari e sociali, che riusciva a veicolare l'elemento chiave per la costituzione di qualsiasi personalità: il limite, il confine.
La generazione dei genitori di Serra, la stessa dei miei genitori, viveva quotidianamente di messaggi più o meno subliminali su ciò che era giusto e ciò che era sbagliato, su ciò che era lecito e ciò che non lo era.
Non che questo fosse (e sia) il modo migliore di rapportarsi con la crescita di un individuo.
Ma poneva dei punti di riferimento ben marcati; dei paletti precisi, che col tempo ciascuno avrebbe poi provato (spesso non senza difficoltà, beninteso) a ridefinire, o a superare, o ad accettare.
Quello di prima era in tutto e per tutto un mondo codificato, di non difficile 'lettura', che non ti accettava se non parlavi la sua stessa lingua.
Un mondo in cui per dimostrare di esserci dovevi sgomitare, emergere in qualche modo, specie intellettualmente, culturalmente.
Un mondo in cui nessuno ti regalava niente. Genitori compresi.
Dove sono i codici, nel mondo di oggi? O meglio: quali sono, cosa significano?
Nella babele selvaggia di messaggi che ci investono quotidianamente, uno solo è arriva forte e chiaro: "il mondo sei tu, giovane che stai crescendo".
Con le tue potenzialità, i tuoi diritti, i tuoi piaceri. Col culto del corpo, dell'immagine, del successo.
Tutto è a tua disposizione, dall'elettronica agli hobbies di ogni tipo, dai viaggi alla rete: basta allungare la mano.
E mamma e papà ti aiutano finché non prendi quello che ti spetta.
Ripeto, non voglio dire con questo (mentre mi pare che Serra lo sottintenda) che la società di ieri fosse migliore di quella di oggi. In fin dei conti è lei che ha prodotto una schiera di genitori fragili ed insicuri, ansiosi di regalare ai figli il rapporto che loro sognavano e non avevano avuto; gli agi cui aspiravano ma che non potevano permettersi; quel benessere materiale che ai loro tempi, essendo una chimera, aveva costituito un "valore", a differenza di oggi che appare a molti un diritto inalienabile.
In definitiva, per come la vedo io, non si dialogava ieri, si dialoga male oggi.
Solo che mentre la conseguenza di quell'autoritarismo normativo si tradusse in persone che tentarono di elevarsi per essere accettati dal mondo, la conseguenza del lassismo iperprotettivo di oggi produce giovani che vivono alla giornata senza chiedersi cosa vogliono - perché in fondo hanno tutto - né cosa devono fare per far parte del mondo, giacché il mondo, appunto, sono loro.
Se a questo si unisce l'arma totale della società di oggi, la delegittimazioni dei ruoli, il gioco è fatto.
A tutti i livelli, dalle famiglie alla politica, passando per i media, il messaggio è fin troppo chiaro: le istituzioni sono tali di nome, ma non di fatto.
Pensate per un attimo a tutte le affermazioni che leggiamo, sentiamo dire o magari diciamo noi stessi nei momenti di rabbia.
Coloro che amministrano la giustizia sono ingiusti...
Coloro che insegnano non sanno quello che dicono...
Coloro che rappresentano i cittadini sono disonesti...
Eccetera, eccetera.
Non è il luogo per approfondire se questi assunti, almeno in parte, possano contenere qualcosa di vero.
Fatto sta che sono quanto di più pernicioso possa esservi per un individuo in crescita, che registra l'inesistenza (o l'inconsistenza) di qualsiasi punto di riferimento.
Due carabinieri che mi fermano, a quel punto, non sono più l'autorità, l'istituzione: sono due individui vestiti in modo buffo, che chissà come hanno vinto un concorso col posto fisso e ora si credono chissà chi e vogliono rompere le palle a me che sono il centro dell'universo e ho solo alzato un po' il gomito e mi sono sballato per divertirmi.
Come si arriva al pestaggio, credetemi, è questione di dettagli.
E su quei dettagli, magari, avrà sicuramente la sua brava influenza "l'eredità", o "i geni" che dir si voglia.
Ma questo non deve portarci a smettere di riflettere su come l'ambiente (= tutti noi) abbia giocato e giochi queste benedette "mani".
Perché altrimenti il passaggio successivo è: "pazienza, i giovani d'oggi son fatti così, costituzionalmente".
Mentre io continuo a credere che ogni giorno che ci è dato su questa terra il nostro compito sia quello di chiederci cosa possiamo fare per diventare migliori come individui, come essere genitori perfetti e come costruire, tutti insieme, una società esemplare.
Il resto, chissà: magari verrà da sé.
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