Benvenuti nella città invisibile, ma non silente!

La città invisibile è una contraddizione in termini. Se una città esiste, con le sue case, le strade, i lampioni, gli abitanti, come può essere invisibile?! La città invisibile però c’è: è dentro ognuno di noi. Le fondamenta delle sue case sono quello che abbiamo costruito fino ad oggi, le nostre esperienze passate, gli avvenimenti della nostra vita. I mattoni delle case sono i nostri sogni, le aspettative, le speranze, tutto ciò che vorremmo fosse, domani, presto o tardi che sia. Le vie della città invisibile sono i nostri pensieri, che si ramificano innervandosi e collegano case, ponti, quartieri, costituendo una fitta rete di scambi e connessioni. La città invisibile è lo spazio vivo in cui ognuno si sente quello che è, ed è libero di esprimersi, di sognare, di dire “no”, persino di creare mondi diversi, realtà parallele: con la speranza che quel tesoro invisibile custodito dentro ognuno di noi possa rappresentare la fiaccola del cambiamento e si riesca a passarne, tutti insieme, il testimone. La via per riuscirci, a mio parere, è quella indicata da Italo Calvino: “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio".

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giovedì 29 marzo 2012

O tempora, o mores!


[Dal Prof. Woland per la Città Invisibile]

Il bel post di Luigi sul degrado della scuola mi spinge ad esporre alcune considerazioni in merito.

Se l'Invalsi anziché i temi di maturità  sottoponesse a verifica le pagine degli scrittori contemporanei, gli articoli dei giornalisti, i discorsi dei nostri politici i risultati sarebbero altrettanto mortificanti.
Io stesso mi ritrovo continuamente a segnalare errori di ogni tipo.
Ho dovuto scrivere ad un noto chirurgo che si dice "carie" e non "caria", ad un filosofo che si pronuncia satirìasi e non satiriàsi, e gli esempi si potrebbero moltiplicare.
Parlando con Ezio Mauro, qualche settimana fa, mi sono lamentato degli innumerevoli strafalcioni che appaiono sul suo quotidiano e lui mi ha risposto che non c'è - contrariamente al passato, quando il giornale aveva al massimo sei, sette  pagine - il tempo materiale di riguardare tutto.
Insomma il degrado della lingua e il suo impoverimento non riguardano solo gli studenti.
Con questo voglio dire che per quanto riguarda la lingua non mi sembra che si possa attribuire alla scuola tutta la responsabilità. Il mondo di oggi è all'insegna della deregulation in tutti i campi: dal bon ton  a tavola al costume sulla spiaggia, dal codice stradale a quello penale, dalla condotta morale - sia pure di facciata, come suggerisce il vecchio aforisma: "nisi caste, saltim caute" - alla dignità e allora perché mai si dovrebbero rispettare la grammatica e la sintassi?
Un tempo per diventare attore o conduttore televisivo bisognava studiare dizione e quindi anche ortoepia.
Alberto Sordi era solito raccontare che era stato cacciato dal corso di recitazione dell'Accademia dei Filodrammatici per non essere stato capace di liberarsi del suo accento romanesco. 
Ora basta sentire dieci minuti di radio o di televisione per essere invasi da pronunce improbabili di ogni genere. Che fine ha fatto il Dizionario d'ortografia e di pronunzia realizzato dalla RAI per formare i propri giornalisti impegnati nelle prime trasmissioni?

Concludo dicendo che l'importanza delle competenze e delle regole, è sempre storicamente determinata.
« Moribus antiquis res stat Romana virisque (Lo stato Romano si fonda sugli antichi costumi e sui grandi uomini» scrive Ennio.
« Vestiri inquit in foro honeste mos erat, domi quod satis erat (Nel foro era costume vestirsi in modo decoroso, in casa quanto bastava» lamenta  Catone il Censore .
Cicerone inneggia spesso nelle sue opere al mos maiorum e così faranno centinaia di anni dopo Tacito e Marco Aurelio.

Insomma quando giudichiamo i mutamenti del nostro tempo difficilmente riusciamo a cogliere nel segno.

Ai posteri l'ardua sentenza.


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