Benvenuti nella città invisibile, ma non silente!

La città invisibile è una contraddizione in termini. Se una città esiste, con le sue case, le strade, i lampioni, gli abitanti, come può essere invisibile?! La città invisibile però c’è: è dentro ognuno di noi. Le fondamenta delle sue case sono quello che abbiamo costruito fino ad oggi, le nostre esperienze passate, gli avvenimenti della nostra vita. I mattoni delle case sono i nostri sogni, le aspettative, le speranze, tutto ciò che vorremmo fosse, domani, presto o tardi che sia. Le vie della città invisibile sono i nostri pensieri, che si ramificano innervandosi e collegano case, ponti, quartieri, costituendo una fitta rete di scambi e connessioni. La città invisibile è lo spazio vivo in cui ognuno si sente quello che è, ed è libero di esprimersi, di sognare, di dire “no”, persino di creare mondi diversi, realtà parallele: con la speranza che quel tesoro invisibile custodito dentro ognuno di noi possa rappresentare la fiaccola del cambiamento e si riesca a passarne, tutti insieme, il testimone. La via per riuscirci, a mio parere, è quella indicata da Italo Calvino: “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio".

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giovedì 29 marzo 2012

Per chi suona la campana.


Ci (ri)siamo.

Il virus ha colpito anche il Prof. dei Prof., il Presidente del Consiglio Mario Monti.

La consensite acuta sta rapidamente assumendo i contorni della malattia del secolo.

Il Presidente Monti, da Tokyo, ha dichiarato:
Nonostante alcuni giorni di declino a causa delle nostre misure sul lavoro, questo governo sta godendo un alto consenso nei sondaggi, i partiti no
Che se ci pensate bene è un'affermazione piuttosto allarmante, da diversi punti di vista.

1. La questione sul tavolo è proprio quella delle misure sul lavoro: rispondere alle domande in merito dicendo "a parte quello, stiamo andando alla grande, grazie" è quantomeno risibile. Quantomeno.

2. L'equazione per cui consenso=aver ragione o peggio ancora consenso=correttezza delle misure/equità dei provvedimenti ecc. ecc. non è solo drammaticamente sbagliata, ma anche pericolosamente demagogico-populistica. 
Tra l'altro, a ben vedere, era esattamente la filosofia del Caimano: ho la fiducia degli italiani=sto facendo la cosa giusta...
Mi limito a sottolineare in tal senso, da un punto di vista squisitamente logico (e sommessamente politico), che se questo assunto fosse vero NON avremmo certo bisogno di un intero Parlamento; e comunque certo NON di un'opposizione; figurarsi poi di parti sociali: MAI, soprattutto, dovremmo discutere di alcunché, visto e considerato che chi governa, per il solo fatto di aver avuto la fiducia da una maggioranza, agirebbe correttamente per definizione.

3. La contrapposizione governo-partiti stressata da Monti con una entrata decisamente a gamba tesa  assume i contorni di una precisa strategia comunicativa: giocando su una sorta di immedesimazione popolare il Premier tecnico pesca a man bassa nel diffusissimo sentimento anti-casta e marca una precisa divaricazione istituzionale tra governo e partiti, assai poco politically correct. Facendo arrivare ai partiti un chiaro messaggio: "noi siamo i buoni, voi i cattivi e ci hanno chiamato per salvare il mondo che voi stavate distruggendo: non lo dimenticate". 
Al tempo stesso insomma una minaccia, una scomunica, una dichiarazione di manifesta superiorità e una rivelazione esplicita del consenso come instrumentum regni. Scusate se è poco.

Se poi a tutto questo aggiungiamo che il governo in carica si regge al momento sui voti di quei partiti cui Monti rammenta di essere in crisi di consenso, il melodramma si fa quasi teatro dell'assurdo.

E pensare che, sull'onda dei dissensi, tutto era cominciato con la frase "se il paese non è pronto, il governo potrebbe anche non restare".

Resta un mistero glorioso come si sia passati, in sole 24 ore, dal dubbio che il paese non fosse pronto, alla dichiarazione di non aver bisogno di consensi (Sic! Ne parlava Gilioli recentemente in un bel post), alla certezza del "sono tutti con me".

Non so, ma mi viene da pensare che questi siano segnali forti che c'è qualcosa da rivedere nel modo di affrontare i problemi spinosi del nostro paese. 

Mediaticamente non c'è dubbio. Ma anche politicamente, sia ben chiaro.

Perché tecnici o non tecnici, i Professori ora stanno facendo politica. Politica vera.

E, nella politica vera, l'assioma accademico per cui "se lo studente non capisce, è solo colpa sua", funziona maluccio.

E allora cari Prof., se permettete un consiglio, provate a cambiare le parole; ditecelo in un altro modo.

Fateci comprendere perché in un paese in cui non si trova lavoro, una delle misure per lo sviluppo dovrebbe essere quella di rafforzare il diritto di togliere il lavoro a chi ce l'ha.

Spiegateci, fateci capire.

Forse, dico forse, ce lo dovete.


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O tempora, o mores!


[Dal Prof. Woland per la Città Invisibile]

Il bel post di Luigi sul degrado della scuola mi spinge ad esporre alcune considerazioni in merito.

Se l'Invalsi anziché i temi di maturità  sottoponesse a verifica le pagine degli scrittori contemporanei, gli articoli dei giornalisti, i discorsi dei nostri politici i risultati sarebbero altrettanto mortificanti.
Io stesso mi ritrovo continuamente a segnalare errori di ogni tipo.
Ho dovuto scrivere ad un noto chirurgo che si dice "carie" e non "caria", ad un filosofo che si pronuncia satirìasi e non satiriàsi, e gli esempi si potrebbero moltiplicare.
Parlando con Ezio Mauro, qualche settimana fa, mi sono lamentato degli innumerevoli strafalcioni che appaiono sul suo quotidiano e lui mi ha risposto che non c'è - contrariamente al passato, quando il giornale aveva al massimo sei, sette  pagine - il tempo materiale di riguardare tutto.
Insomma il degrado della lingua e il suo impoverimento non riguardano solo gli studenti.
Con questo voglio dire che per quanto riguarda la lingua non mi sembra che si possa attribuire alla scuola tutta la responsabilità. Il mondo di oggi è all'insegna della deregulation in tutti i campi: dal bon ton  a tavola al costume sulla spiaggia, dal codice stradale a quello penale, dalla condotta morale - sia pure di facciata, come suggerisce il vecchio aforisma: "nisi caste, saltim caute" - alla dignità e allora perché mai si dovrebbero rispettare la grammatica e la sintassi?
Un tempo per diventare attore o conduttore televisivo bisognava studiare dizione e quindi anche ortoepia.
Alberto Sordi era solito raccontare che era stato cacciato dal corso di recitazione dell'Accademia dei Filodrammatici per non essere stato capace di liberarsi del suo accento romanesco. 
Ora basta sentire dieci minuti di radio o di televisione per essere invasi da pronunce improbabili di ogni genere. Che fine ha fatto il Dizionario d'ortografia e di pronunzia realizzato dalla RAI per formare i propri giornalisti impegnati nelle prime trasmissioni?

Concludo dicendo che l'importanza delle competenze e delle regole, è sempre storicamente determinata.
« Moribus antiquis res stat Romana virisque (Lo stato Romano si fonda sugli antichi costumi e sui grandi uomini» scrive Ennio.
« Vestiri inquit in foro honeste mos erat, domi quod satis erat (Nel foro era costume vestirsi in modo decoroso, in casa quanto bastava» lamenta  Catone il Censore .
Cicerone inneggia spesso nelle sue opere al mos maiorum e così faranno centinaia di anni dopo Tacito e Marco Aurelio.

Insomma quando giudichiamo i mutamenti del nostro tempo difficilmente riusciamo a cogliere nel segno.

Ai posteri l'ardua sentenza.


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martedì 27 marzo 2012

Bussole e cannocchiali.


Su Repubblica di ieri, Mario Pirani solleva una problematica non da poco: esiste nella scuola una questione morale?
Lo spunto della riflessione nasce dagli strafalcioni linguistici delle prove d'italiano della maturità raccolte dall'Invalsi.
Pirani contesta le analisi semplicistiche che vedono la causa principale di questo degrado nella semplificazione indotta dalla "lingua del computer" e sostiene invece che:
alla radice vi è il venir meno dello studio come "dovere", come "obbligo" che impone fatica, con "risultati" che vengono premiati o sanzionati."
A supporto di questa sua ipotesi, cita un saggio di Marcello Dei, dal titolo Ragazzi si copia. A lezione di imbroglio nelle scuole italiane, in cui una delle tesi principali dell'autore è la seguente: "la pedagogia della comprensione è diventata benevolenza a buon mercato o addirittura complicità".

Qualche considerazione sparsa.

Concordo con Pirani che ridurre la questione della regressione della lingua all'uso sempre più frequente della "lingua del computer" è quantomeno fuorviante, se non addirittura sbagliato.

Allo stesso modo, tuttavia, ricondurre l'involuzione linguistica dei nostri studenti al "venir meno dello studio come dovere e come obbligo che impone fatica" mi pare volere a tutti i costi orientare la discussione rinunciando all'analisi - che pure Pirani auspica - e mettendo sul piatto una conclusione già definita.
Che purtroppo invece - o per fortuna - non è affatto così scontata.

Il dibattito sul modello pedagogico da adottare, difatti, è tutt'altro che chiuso.
Puntare su un modello non autoritario, attivo, collaborativo, impostato sullo studio come piacere, anziché come dovere, non significa affatto creare automaticamente classi di individui riottosi ad ogni forma di rigore, sciatti dal punto di vista della disciplina, vogliosi soltanto di copiare quando possibile e comunque intenti solo ad organizzarsi al  meglio per raggirare l'insegnante di turno (ho liberamente tradotto le parole di Dei citate da Pirani: "ragazzini che vengono addestrati, nei comportamenti quotidiani, a sviluppare una mentalità mafiosa, fatta di complicità contro le istituzioni (...) una solidarietà omertosa, in cui l'obiettivo comune è dato dall´ingannare chi è in cattedra").

So che questo è un punto considerato da molti indigesto, ma la formula secondo cui dovere+fatica=risultati è fuorviante, se non addirittura sbagliata. 

Come è erroneo il ragionamento per cui tutti i mali della scuola sono da ricondurre (solo e principalmente) alla "benevolenza a buon mercato" veicolata dalla scuola, cioè dagli insegnanti.
Il fatto cioè che vi possa essere da parte degli insegnanti una tendenza ad interpretare la propria leadership in modo eccessivamente democratico o persino laissez-faire, non implica di per sé che il depauperamento delle competenze linguistiche dei nostri giovani sia da attribuirsi tout-court a quel tipo di leadership.

Tantomeno siamo in possesso di dati scientifici che confermano che l'approccio dovere+fatica nell'istruzione avrebbe portato - o porterebbe - ad una sicura padronanza linguistica.
Il confronto col passato è perdente.
I modelli culturali legati alla didattica devono presupporre un'attenta lettura del contesto storico e sociale in cui viviamo.

È sacrosanto interrogarsi su quale modello pedagogico vogliamo per i nostri giovani, oggi.

Ma tutto sta in quell' "oggi".

È pensabile, oggi, o se preferite è realizzabile un modello di disciplina autoritario impostato sul concetto di apprendimento come fatica?

La risposta è no, non è pensabile. È anacronistico e fuori contesto.

I ragazzi oggi arrivano a scuola con altre capacità e aspettative, rispetto a ieri e con un'autonomia cognitiva del tutto diversa.
Una su tutte? Loro sono nativi digitali, molti insegnanti no: quale autoritarismo può rovesciare la supremazia degli alunni sui loro insegnanti nell'era digitale, cioè nella loro era?
E questo semplice dato di contesto può non avere un effetto sul rapporto insegnante/allievo (con quest'ultimo che, a ragione, può spesso pensare di essere "avanti anni luce" rispetto al proprio insegnante?!).

I problemi della nostra scuola oggi, sono ben altri dalla questione morale (presente, per carità, ma scusate la battuta scontata: siamo in Italia!). Che va trattata qual è, cioè uno dei tanti effetti di cause ben più rilevanti.

In ordine rigorosamente sparso (mi siano concesse le generalizzazioni, per semplificare un tema così complesso):

1. Si è lacerato e praticamente dissolto il rapporto tra genitori e insegnanti.
Non c'è un patto, non c'è un progetto vero - né tacito né esplicito - che lega famiglia e scuola nell'obiettivo di sviluppare gli adulti di domani. Le scuole, nelle vite complesse e senza tempo di molti genitori, sono diventate dei parcheggi in cui lasciare custoditi i propri figli durante la giornata lavorativa. Gli insegnanti parlano coi genitori, quando va bene, una volta al mese. L'argomento principale solitamente sono i voti, mentre la crescita emotiva dei piccoli umani è sottintesa e sottaciuta. Quando lo ritengono necessario - sempre più spesso - i genitori si schierano convinti, a spada tratta, contro la scuola, rea di commettere ingiustizie, di sottovalutare i loro figli - tutti geni incompresi - di attentare alla loro stabilità emotiva facendo confronti e pretendendo cose impossibili.
Il risultato? In tutta questa situazione conflittuale, il piccolo umano cresce nella convinzione che l'istituzione (=la scuola) è un nemico che attenta alla sua incolumità, un mostro da combattere con tutti i mezzi per salvare la pelle... magari con l'astuzia, o con l'inganno...

2. I luoghi dell'apprendimento, i metodi per l'apprendimento, i contenuti relativi all'apprendimento, a fronte di una rivoluzione sociale epocale (scatenata dai mezzi digitali, ma non solo), sono cambiati poco o nulla.
La nostra scuola - salvo alcune rare isole felici - è ad oggi una realtà fuori dal tempo, con insegnanti "antichi" che - giustamente - faticano a rovesciare il classico metodo frontale in uno attivo, innovativo, collaborativo.  Rovesciamento necessario, aggiungo, perché il vecchio modello pedagogico basato sul trasferimento ex cathedra di nozioni non può più funzionare: sono cambiate le capacità e le modalità legate alla sfera dell'attenzione; è cambiato il modo in cui pensiamo alle cose e vediamo le cose stesse.
Che ci piaccia o no, la realtà è questa.

La questione dell'apprendimento come fatica - nel senso di sacrificio - è un'altra favola che ci vogliamo raccontare per resistere al cambiamento necessario.
La vera sfida oggi, relativa all'istruzione, è cercare di capire quali sono le competenze da sviluppare e qual è il metodo migliore per farlo.

Il sapere un tempo era verticale e statico, racchiuso com'era nei templi della conoscenza, cioè le biblioteche o le menti dei sapienti.
Oggi la conoscenza esplora nuove dimensioni, orizzontali e dinamiche: con un click sono in biblioteca, trovo un'etimologia, vado su Wikipedia e guardo un dipinto, faccio un tour virtuale di Roma antica...

E allora l'interrogativo, semplice semplice, è il seguente: che senso può avere una scuola che pretende di essere ancora una miniera di informazioni quando quelle informazioni oramai sono ovunque (anzi ce ne sono infinitamente di più, in giro), accessibili a tutti con pochi semplici gesti?

Non è forse il caso che la scuola punti a diventare il luogo in cui si insegna primariamente a costruire significati, a discernere ed orientarsi tra i miliardi di informazioni disponibili, a stabilire connessioni di senso tra le nozioni sparse e in perenne divenire?

Forse allora si potrebbe percepire lo stare a scuola come un vero dovere, come un obbligo sensato, perché la scuola sarebbe lo strumento indispensabile per decodificare il mondo, per orientarsi, per viaggiare in modo consapevole, per costruire sapientemente le proprie rotte.

Un tempo, dalla terraferma, si insegnava che esistevano i mari e gli oceani e che per sopravvivere bisognava saper costruire un'imbarcazione quanto più solida possibile con l'obiettivo di riuscire un giorno a mettersi in mare e condurre una navigazione sicura.

Oggi nasciamo in mare aperto. Navigare è ciò che ci viene "naturale".
Servono una buona bussola, un cannocchiale, l'abilità di riparare - all'occorrenza - l'imbarcazione di cui siamo dotati, la capacità di decifrare i segni che vediamo sulle mappe delle rotte.
E un filo tenace che colleghi la nostra imbarcazione a quelle degli altri, tenendo unito il senso di una collettività dinamica ed itinerante che si riconosca come tale e sia in grado di mantenersi solida tra un attracco e l'altro.

Io la vedo così, la scuola di oggi, quella di domani.

Realizzando il meraviglioso concetto espresso da James Hillman nel suo Il piacere di pensare:

Il “luogo dell’apprendimento si trova ovunque la mente diventi viva.


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lunedì 26 marzo 2012

Provvisorio quindi definitivo.


[Dal Prof. Woland per la Città Invisibile]

Leggiamo  su un quotidiano che dopo un esposto del Codacons, la Procura di Varese ha delegato la Guardia di Finanza a recarsi nelle sedi delle principali compagnie petrolifere italiane, a Roma, Milano e Genova, e "acquisire varia documentazione" al fine di accertare l’esistenza di eventuali manovre speculative.
Il motivo di tanta solerzia è del tutto evidente: la benzina costa ormai quasi 2 euro al litro
Il prezzo della benzina in Italia è dunque il più alto d'Europa (tanto per essere precisi il costo medio di un litro di benzina nell'Ue è di 1,605 euro).
Inutile dire - lo sanno tutti - che tale primato è dovuto al prelievo fiscale: il peso delle tasse sulla benzina è arrivato infatti al 58%, oltre un euro sul costo di un litro di verde.

Allora ci permettiamo di suggerire al nostro governo "medice cura te ipsum" altro che cartello delle compagnie. 

Ricordiamo le accise* che gravano sul prezioso carburante:


0,00103 euro per il finanziamento della guerra di Etiopia del 1935-1936;
0,00723 euro  per il finanziamento della crisi di Suez del 1956;
0,00516 euro per il finanziamento del disastro del Vajont del 1963;
0,00516 euro per il finanziamento dell'alluvione di Firenze del 1966;
0,00516 euro per il finanziamento del terremoto del Belice del 1968;
0,0511 euro per il finanziamento del terremoto del Friuli del 1976;
0,0387 euro per il finanziamento del terremoto dell'Irpinia del 1980;
0,106 euro per il finanziamento della guerra del Libano del 1983;
0,0114 euro per il finanziamento della missione in Bosnia del 1996;
0,02 euro per il rinnovo del contratto degli autoferrotranvieri del 2004.
0,005 euro per l’acquisto di autobus ecologici nel 2005;
da 0,0071 a 0,0055 euro per il finanziamento alla cultura nel 2011;
0,04 euro per far fronte all'emergenza immigrati dovuta alla crisi libica del 2011;
0,0089 euro per far fronte all'alluvione che ha colpito la Liguria e la Toscana nel novembre 2011;
0,082 euro per il decreto "Salva Italia" nel dicembre 2011.

Inoltre, dal 1999, le Regioni hanno la facoltà di imporre accise regionali sui carburanti.
Ma non basta: ora occorre sommare l'imposta di fabbricazione sui carburanti, per un totale finale di 70,42 centesimi di euro per la benzina e 59,32 per il gasolio. 
Su queste accise viene  poi  applicata anche l'IVA al 21% realizzando così una tassa sulla tassa.

Chiediamo dunque sommessamente:
 Ma - fatte salve le direttive dell'Unione europea - non si può ridurre qualcuna di queste accise?

Va bene che, per dirla con Ennio Flaiano, "In Italia nulla è più definitivo del provvisorioma è davvero ridicolo che, a distanza di 77 anni,  si continui a pagare un'imposta per il finanziamento della guerra di Etiopia, per citare solo il caso più eclatante.

Credo che il rinnovamento in questo paese debba cominciare anche da qui: piccoli segnali di avvio alla normalità.
___________________________________
*Per accisa si intende una imposta sulla fabbricazione e vendita di prodotti di consumo che va a gravare non sul valore del bene - come, per esempio, l'IVA -  ma sulla quantità.


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giovedì 22 marzo 2012

Impariamo a spegnere il cervello.



 [Dal Prof. Woland per la Città Invisibile]

Brutte notizie: la creatività sta morendo.
Kyung Hee Kim
In un recente articolo* Kyung Hee Kim (professore associato di psicologia dell'educazione presso il College William & Mary a Williamsburg, Virginia)  ha discusso il declino della creatività.

 Kim ha sottoposto al test di Torrance** - il cosiddetto T.T.C.T, ovvero Torrance Test of Creative Thinking che misura per l'appunto la creatività - quasi 300.000 americani adulti e bambini.

 I risultati di questo accurato esperimento dicono che in America negli ultimi venti anni  la creatività è letteralmente crollata.

Ovviamente il lavoro della professoressa Kim ha  ha catturato l'attenzione di insegnanti e psicologi di tutto il paese (si legga l'interessante intervista alla scienziata nel blog dell' Encyclopædia Britannica) e ha creato un vero e proprio allarme sociale dal momento che la creatività riveste un ruolo di grandissima importanza.
Qui vi è luogo per porre l'enfasi su una delicata questione. Molti mettono sullo stesso piano intelligenza e creatività ma sbagliano.
I test d'intelligenza standard misurano il pensiero convergente, che è la capacità di elaborare una sola risposta corretta, mentre la creatività coinvolge il pensiero divergente, che è la capacità di trovare risposte nuove e insolite.
I paesi che investono in creatività possono  aspettarsi nuovi modi di vita e di governance, nuovi materiali e strumenti, nuove tecnologie e professioni che non possiamo neanche immaginare. Questo è il motivo per cui è così importante riconoscere l'importanza della creatività, non spegnerla, incoraggiarla, favorirla, premiarla, se non vogliamo che un Paese resti drammaticamente indietro.

Peraltro la creatività è indissolubilmente legata alla capacità critica dell'individuo e questo spiega forse perché il sistema tenda ad ostacolarla. Inutile dire che i genitori e gli insegnanti - specialmente nella scuola materna e primaria - sono i principali responsabili del fenomeno riscontrato. La creatività, infatti, è innata nel bambino e prima ancora che favorirla occorre conservarla.
Alf Rehn
Purtroppo non è facile risolvere questo problema.

Il perché ce lo spiega, nell'affascinante affascinante libro Dangerous Ideascome trasformare il pensiero provocatorio nella risorsa più preziosa (Angeli editore, 2012), Alf Rehn.

Alf ha 39 anni, è un business thinker attualmente titolare della cattedra di Direzione e Organizzazione nella Åbo Akademi University in Finlandia.***
Il pensiero libero, dice Rehn, "è provocatorio e pericoloso". Quindi la creatività comporta una grande fatica. Secondo le neuroscienze essere innovativi, inventivi non è piacevole ma sgradevole.
 Il cervello è pigro e può diventare il peggior censore delle idee creative. È un organo che ama gli schemi e le ripetizioni, e odia e scoraggia la novità. Fintanto che lo nutriamo di idee che può facilmente incasellare nei suoi schemi, ci gratifica con dosi di dopamina che ci fanno stare bene. Quando invece pensiamo a cose provocatorie e innovative, il rubinetto della dopamina si chiude e aumenta la produzione di ormoni e di stress: il cervello vuole farci capire che quando siamo creativi, non è contento di noi. E ci fa soffrire.
Occorre dunque, ci suggerisce Rehn, un vero e proprio esercizio per essere creativi. Occorre imparare a "spegnere il cervello " o almeno la sua parte più conservatrice.
Il modo migliore per essere creativi, quindi, è riflettere soprattutto sulle cose che tendiamo a disapprovare. La prossima volta che bolli un'idea come sgradevole, fermati e domandati: cosa stai cerando di proteggere? Cosa vuoi evitare di imparare? Avvertire disgusto per un'idea è il primo segnale che abbiamo raggiunto i limiti imposti dal nostro cervello. Oltre quella palizzata c'è la creatività.
Parola di Alf Rehn.

 Ecco perché, per tornare ad un mio leit motiv, le rivoluzioni copernicane sono così difficili da accettare.
_________________________________________________
*The creativity crisis: The decrease in creative thinking scores on the Torrance Tests of Creative Thinking (Creativity Research Journal, Volume 23, Issue 4, 2011 pp.285-295)
**Torrance E.P., Test di pensiero creativo, O.S, Firenze, 1989
***Thinkers 50 , la più importante classifica in questo campo, ha inserito Alf Rehn tra i più promettenti "Business Thinkers" del futuro, mentre il Times lo ha indicato come la nuova stella emergente nel pensiero manageriale.


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lunedì 19 marzo 2012

Consensi... di colpa.


Devo dire che in fondo in fondo un po' di tenerezza la fanno.

Gli 'amici' del Giornale, intendo.

Solo tre anni fa, il 26 marzo del 2009, potevano scrivere di un Berlusconi che dichiarava:
Siamo ora, secondo gli ultimi sondaggi, al 43% e puntiamo al 51%; sappiamo come arrivarci e sono personalmente sicuro che ci arriveremo.
 Oggi, 19 marzo 2012, esultano timidamente così:


Un ricco 24% dunque, secondo i sondaggi che "segnano una ripresa". C'è di che giubilare, in effetti.

Naturalmente nessuna riflessione, nessun interrogativo, nessuna ipotesi su come diavolo sia stato possibile un simile crollo del PdL.

Una impostazione del genere dicevo, per certi versi, fa quasi tenerezza.

Se non fosse che, evidentemente, assume i contorni di una comunicazione rivolta a chi riesce ancora a credere che il PdL sia una compagine politica e non già, piuttosto, l'invenzione farlocca di un partito con appicicato sopra l'etichetta di una destra-che-non-c'è.

Una compagine burla che ha spazzato via la nostra Repubblica Parlamentare incarnando, come partito di maggioranza relativa, il volere di un solo uomo.

L'azienda elettorale di Silvio Berlusconi, in poche parole.

E allora la domanda è un'altra: chi sono questi italiani che ancora si riconoscono nel Popolo della Libertà?

Perché ad occhio e croce, abbiate pazienza, a me fanno quasi più paura di quelli di ieri.


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domenica 18 marzo 2012

Io so' io e voi nun siete n'...

Il Marchese del Grillo del mitico Albertone nazionale.

Lo dirò molto sommessamente.

Alla reazione di Francesco Rutelli, durante la trasmissione In mezz'ora di Lucia Annunziata, mi è venuto istintivo pensare che quasi quasi ne usciva meglio - mediaticamente parlando, si badi bene - Silvio Berlusconi, con le sue alzate d'ingegno, le teorie complottistiche, i tripli carpiati e le uscite di scena (vedi appunto quella dalla stessa Annunziata).

Per come la vedo io, infilare in meno di 30 secondi una minaccia di querela, un può "andare a dormire tranquilla stanotte" e un sontuoso "mi rompete ancora le palle" non solo non è da tutti, ma direi che entra immediatamente di diritto nella top ten dell'arroganza e della scompostezza tipiche della politica nostrana.

A prescindere dalle ragioni e dalle spiegazioni su questa benedetta vicenda Lusi, sia ben chiaro.

E mi viene da aggiungere che forse, dico forse, l'ormai desueta e dimenticata pratica delle dimissioni (a prescindere dalle responsabilità dirette sulle questioni morali e/o giudiziarie) un tempo serviva anche ad evitare questi siparietti poco edificanti.

Anche.


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La lotta di classe? Continua...


[Dal Prof. Woland per la Città Invisibile]


Negli ultimi decenni la cultura dominante ha tentato di accreditare la  teoria che le classi non esistano più e che la lotta di classe non è altro che un fossile del vetero comunismo. Si tratta di un inganno che è anche parzialmente riuscito.

Viene in mente la profezia (1926) dell'anarchico gallese Gafyn Llawgoch:
 Il socialismo perderà perché il capitalismo convincerà i servi di essere padroni.
Ora è senz'altro vero che dal dopoguerra in poi, sia in Italia che nel resto delle democrazie occidentali, l'ascensore sociale ha innalzato milioni di individui allo status di cittadini consentendo loro l'accesso ai consumi (cellulare, tv, computer, viaggi, vacanze) ma, a parte il fatto che dagli anni '80 in poi sembrerebbe che sull'ascensore ci sia la scritta out of order, questo non significa certo la fine delle classi sociali.

Troviamo una convincente dimostrazione di questa asserzione in un bel saggio, fresco di stampa, del sociologo Luciano Gallino (professore emerito dell'Università di Torino) dal significativo titolo La lotta di classe dopo la lotta di classe (Laterza, marzo 2012).
Luciano Gallino
La lotta di classe oggi è quella di chi non è soddisfatto del proprio destino, e vuole cambiarlo, e quella di chi invece è soddisfatto del proprio destino e vuole difenderlo
dice l'autorevole sociologo.

La presentazione del libro riassume mirabilmente le vicende che stiamo dolorosamente vivendo sulla nostra pelle:
La caratteristica saliente della lotta di classe alla nostra epoca è questa: la classe di quelli che possiamo definire genericamente i vincitori sta conducendo una tenace lotta di classe contro la classe dei perdenti. Dagli anni Ottanta, la lotta che era stata condotta dal basso per migliorare il proprio destino (vedi il mio post La fine del compromesso tra capitalismo e democraziaha ceduto il posto a una lotta condotta dall'alto per recuperare i privilegi, i profitti e soprattutto il potere che erano stati in qualche misura erosi nel trentennio precedente. Questo è il mondo del lavoro nel XXI secolo, così è cambiata la fisionomia delle classi sociali, queste sono le norme e le leggi volute dalla classe dominante per rafforzare la propria posizione e difendere i propri interessi. L'armatura ideologica che sta dietro queste politiche è quella del neoliberalismo, teoria generale che ha dato un grande contributo alla finanziarizzazione del mondo e che ha avuto una presa tale da restare praticamente immutata nonostante le clamorose smentite cui la realtà l'ha esposta. La competitività che tale teoria invoca e i costi che la competitività impone ai lavoratori costituiscono una delle forme assunte dalla lotta di classe ai giorni nostri. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: aumento delle disuguaglianze, marcata redistribuzione del reddito dal basso verso l'alto, politiche di austerità che minano alla base il modello sociale europeo. 
Eric Hobsbawm, 95 anni.
 Quasi un anno fa avevo scritto un post in cui segnalavo l'ultimo libro di Eric Hobsbawm Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l'eredità del marxismo (Milano, Rizzoli, 2011).

Il Capitalismo, dice in sostanza anche il grande storico carico d'anni e di saggezza, non è palesemente  in grado di autoregolarsi.
Basti pensare alle grandi crisi economiche e finanziarie di cui siamo stati recentemente testimoni, al pericolo di default che corrono alcuni stati, agli squilibri sempre più marcati tra ricchi e poveri, ai problemi di lavoro e di welfare.
Non possiamo dunque affidarci né al mercato né alle esperienze del secolo scorso:
Per regolare il futuro dell'economia mondiale si renderà necessaria una qualche nuova forma di pianificazione.
E qui entra in gioco Marx. Molte delle sue  previsioni si sono rivelate profetiche quindi - ora che sono cadute le grandi ideologie che impedivano un giudizio sereno - Marx può essere considerato per quello che è sempre stato: un grande pensatore ed un pioniere. Insomma, afferma  Hobsbawm:
È finalmente giunto il momento di prendere Marx sul serio.
Fin qui le analisi. Ma a questo punto ci prende il panico.

Tra il dire e il fare...



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venerdì 16 marzo 2012

Realpolitik.


Sì, d'accordo: non è il massimo (ho detto "Massimo"?) estrapolare dal contesto di un'intervista un paio di frasi.

E tuttavia credo possiate convenirne: alla "notizia" rilanciata da Adnkronos ieri sera, dopo l'intervista di Massimo D'Alema al Tg2, viene davvero da alzare il sopracciglio (destro o sinistro, fate voi: mi sa che ultimamente è lo stesso...).

Eccola qua, la "notizia" bomba:


Siamo praticamente alla fiera dell'ovvietà.

Con un pizzico di perversione in più, tuttavia, se si valuta l'affermazione del Lider Maximo nel suo complesso.

Che ha detto precisamente:
Il governo Monti sta avendo un modo giusto di affrontare l'emergenza del Paese e ha il grande vantaggio di avere una larghissima maggioranza che lo sostiene. Credo che dopo l'emergenza, ci sarà bisogno di più giustizia sociale, ci sarà bisogno di centrosinistra.
Ebbene c'è di tutto un po', in questa frase: 
  • la rivendicazione di ciò che può essere considerato positivo nel governo attuale, giacché il PD è parte integrante della "larghissima maggioranza"; 
  • la deresponsabilizzazione nei confronti di tutto ciò che invece può essere considerato negativo, pur essendo il PD parte integrante della "larghissima maggioranza"; 
  • la tranquillizzante allusione che ciò che di negativo si sta facendo in termini di giustizia sociale potrà essere sanato dal centrosinistra qualora vincesse le elezioni del dopo-Monti.
Mah.

Ditemi quello che vi pare: ma a me 'sta Realpolitik, oramai, mi sta cordialmente sulle balle.


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giovedì 15 marzo 2012

La fine del compromesso tra capitalismo e democrazia.

John Maynard Keynes

[Dal Prof. Woland per la Città Invisibile]

Credo sia molto utile per capire le drammatiche vicende economiche che agitano negli ultimi decenni il nuovo e il vecchio continente parafrasare nel modo più semplice e schematico possibile l'articolo di Nadia Urbinati - docente di Teoria politica alla Columbia University di New York - apparso su La Repubblica del 9 febbraio.


In seguito alla terribile crisi del '29 Keines dettò il più importante compromesso storico del secolo scorso: quello tra capitalismo e democrazia.
In cosa consisteva questo compromesso? È presto detto: il pubblico anziché assistere i poveri li impiegava oppure promuoveva politiche sociali che creavano impiego.
Ne conseguiva un incremento della domanda e una ripresa dell'occupazione, cioè una maggiore giustizia sociale con il seguente esito:

- I poveri diventano davvero i rappresentanti dell'interesse generale della società.
- Le forze politiche, cioè i partiti politici che rappresentano le forze sociali, possono gestire l'allocazione delle risorse economiche (beni sociali e primari, servizi).

È importante notare che alla base del compromesso c'era una delega ai partiti: le classi sociali rinunciavano a fare da sole.

Ora quel tempo è finito. Il compromesso annullato.

Le classi sociali riprendono nelle loro mani le decisioni e ciò vale soprattutto per la classe che detiene il potere economico. Di qui il declino dei partiti.

L'ideologia keynesiana ha funzionato fintanto che l'accumulazione del capitale si traduceva in investimenti e ampliamento del consumo il cui combinato disposto incrementava la giustizia sociale.

La rottura si ha negli anni '80: viene applicata una politica di diminuizione  delle tasse per consentire una nuova ridistribuzione ma stavolta a favore dei profitti. Agli elettori tale politica viene giustificata come stimolo agli investimenti ma invece le risorse liberate in questo modo non finiscono in investimenti produttivi (e quindi in lavoro) bensì in investimenti finanziari.

Da allora dunque l'accumulazione ha sciolto i lacci e lacciuoli imposti dalla democrazia: il lavoro deve tornare ad essere un bene solo economico, libero quindi dalle catene del diritto o della politica.

Questo e non altro è il significato della battaglia sull'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Un significato solo simbolico.

Il potere economico vuole affermare il principio: la regia della nuova democrazia non deve più essere la legge, il legislatore, lo Stato, ma il mercato.

L'articolo 18 è un fossile, ciò che resta del compromesso, dunque deve essere abolito. Ecco perché va eliminato ed ecco perché il sindacato - ben conscio della posta in gioco - lo difende strenuamente.

Ma che tipo di società sarà quella in cui il profitto e l'accumulazione la fanno da padroni senza vincoli alcuni?



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martedì 13 marzo 2012

Il Caffè e vecchi calembour.

La  rivista fondata e diretta da G.B. Vicari


Una nostra cara lettrice - che si firma Na Maria Ferra Cicogn - mi ha fatto un dono davvero gradito che voglio condividere con voi. Si tratta di una serie di gustosi calembour. Le sono grato soprattutto perché Na Maria mi dice che li ha ripescati in un vecchio numero de Il Caffè,  una rivista di letteratura satirica che da giovane ho molto amato, la cui esistenza avevo colpevolmente dimenticato. Pubblicata dagli anni cinquanta agli anni settanta, ebbe tra i redattori nomi prestigiosi quali: Alberto Arbasino, Italo Calvino, Guido Ceronetti, Piero Chiara, Luigi Malerba, Giorgio Manganelli, Sergio Saviane, Paolo Volponi.
Bei tempi!

Ecco dunque la Scemiotic Anthology inviata da Na.

IGIENE: l'epatite vien mangiando.
LE COSTOSE IMPRESE SPAZIALI: impara Marte e mettilo da parte.
SVOLTA A DESTRA : attenzione, caduta masse!
UN NONSENSO STATISTICO : l'indice medio.
ULISSE SI E' ARRABBIATO : apri Troia!
NON ESISTE IL PATTO DI VARSAVIA : non è NATO.
IL ROMANTICO PUGILE SCONFITTO : i dolori del giovane Welter.
LA DIVA SCRIVE : come carriera mica male:ha la lubrica fissa sul giornale.
IL CALCOLATORE DEL VATICANO : ora et elabora.
BOTTIGLIA MOLOTOV : agitare prima dell'U.S.A.

Divertenti, vero?


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lunedì 12 marzo 2012

Tutto il mondo è paese.



[Dal Prof. Woland per la Città Invisibile]

Carissimi concittadini oggi vi propongo un simulazione. Così tanto per giocare. 
Supponiamo che si debba votare, in un referendum, per rispondere ai seguenti quesiti:

1. Volete - proposta dei sindacati -  portare  le ferie retribuite dei lavoratori da 4 a 6 settimane l'anno?

2. Volete che le seconde case non superino il 20% del totale delle abitazioni e che comunque non superino il 20% del totale della superficie abitativa di un singolo comune?

3. Volete che sia introdotta un'agevolazione fiscale sul primo acquisto di una proprietà abitativa ad uso proprio?

4. Volete l'introduzione di agevolazioni fiscali per le misure edilizie di risparmio energetico e di protezione dell’ambiente?

Prima di andare avanti nella lettura provate a rispondere alle domande. Fatto?

Bene ora sveliamo l'origine del gioco. 
Il referendum in questione si è svolto nel fine settimana in Svizzera. Ora immagino siate curiosi di sapere come hanno risposto i cittadini della Confederazione. 
Beh rallegriamoci - tutto il mondo è paese - hanno risposto esattamente come avrebbero risposto gli Italiani.
1. No all'aumento delle ferie.
2. alla limitazione del numero delle seconde case.
3. No all'agevolazione fiscale sull'acquisto della prima casa.
4. No all'agevolazione fiscale sulle misure di risparmio energetico.

Possiamo tirare un sospiro di sollievo: ci sentiamo più tranquilli e più europei anche se la Svizzera non fa parte della Unione europea.


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domenica 11 marzo 2012

Quelli che non si rassegnano...

Coraggio: è dura, ma ce la possiamo fare. Ce la dobbiamo fare.

Venerdì mattina, di buon'ora, mi sono recato all'Ospedale di Careggi di Firenze, per fare qualche analisi di routine.

La prima cosa che mi è balzata all'occhio è che l'ospedale aveva riorganizzato i parcheggi interni, dividendoli scrupolosamente in spazi destinati ai dipendenti e spazi destinati agli utenti/ospiti.

Ho dunque parcheggiato la mia auto negli spazi a me dedicati e mi sono fatto dissanguare come previsto (per una volta non metaforicamente, per giunta, anche se a quanto pare - ancora una volta - il dissanguamento avveniva "nel mio interesse", "per una maggiore serenità futura", "per prevenire guai di rilievo", ecc. ecc...).

Ebbene, mentre facevo ritorno piuttosto alleggerito alla mia auto, ho notato una sfilza di depliant che a bella posta occhieggiavano sui parabrezza di molte automobili da sotto i tergicristalli.
Subito ho pensato all'ennesima pubblicità, ma il ritmo irregolare con cui i volantini parevano essere stati disseminati mi ha messo in sospetto.
E allora mi sono fermato per vedere di cosa si trattasse.
Ed ecco qua il depliant in questione (la foto non è il massimo, abbiate pazienza):



Tutto chiaro?
L'Azienda Ospedaliera Universitaria Careggi richiama all'ordine i propri dipendenti che non rispettano le regole sugli spazi adibiti a parcheggio (dietro il volantino c'è anche un estratto del regolamento aziendale dal titolo "Uso corretto dei parcheggi per i dipendenti").

So già cosa state pensando. 
Se si è costretti a mettere i depliant (il che presuppone stanziare dei fondi, progettare il format, badare alla realizzazione, impiegare degli operatori che controllino il rispetto delle norme e in caso contrario lascino il volantino-ricordo, e via dicendo) significa che la distinzione dipendenti-ospiti da sola non basta, come non basta la comunicazione della norma; ragion per cui se ne deduce che gli inadempienti sono assai numerosi, tanto che l'azienda è costretta a ricorrere ad una campagna di sensibilizzazione/ammonimento.
Tutto vero.
E del resto ce li immaginiamo già, i figli peggiori della nostra inveterata cultura italica, mentre mugugnano ingranando la retromarcia: "ma sì, dai: cosa vuoi che faccia se oggi metto l'auto in uno spazio a me non consentito. D'altro canto io ci lavoro, qui, eccheccaspita!"...

E tuttavia ditemi quello che volete, ma nel terrore che sempre più italiani possano arrendersi di fronte all'ardua impresa che li vede protagonisti e che ha come obiettivo quello di smontare pezzo per pezzo il nostro attuale sistema sociale, depurandolo dal suo marciume, per costruire un'altra civiltà, una civiltà fatte di regole (condivise), di rispetto (reciproco), di immedesimazione (nel prossimo), a me questo volantino è sembrato un pezzo dell'Italia che vale, un simbolo di speranza.

La rappresentazione grafica, insomma, di uno dei tanti modi per non rimanere a guardare.

Mentre da più parti, sia ben chiaro, continuano imperterriti a bruciare il nostro paese.


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Se il professore dà i numeri.

[Dal Prof. Woland per la Città Invisibile]

Nella rubrica delle lettere a la Repubblica del 3 marzo 2012 trovo la seguente lettera:
Insegno nella laurea magistrale una materia, Restauro, fondamentale per gli architetti.  In occasione della prima lezione ho come sempre preannunciato agli studenti che considererò come livello minimo di apprendimento un risultato che coincida col 27, al quale mi impegnerò a portarli. Altri ritengono che l'università sia come una gara olimpica dove al primo andrà la medaglia d'oro, cioè il 30, e agli ultimi, che arriveranno in gruppo, il 18. Un ragionamento condiviso da molti, soprattutto dagli studenti. Ma gli ultimi, in una gara podistica, forse poi si daranno all'ippica, mentre un laureato si iscriverà a un albo professionale e potrà fare danni per tutta la vita. Alla seconda lezione gli 80 iscritti previsti al corso si erano ridotti a cinque, 4 dei quali sono studentesse Erasmus venute in Italia per frequentare una materia, il restauro architettonico, che nel loro Paese non si insegna.
         Firmato: Prof. Nullo Pirazzoli
(Università Iuav di Venezia)


Ecco la mia risposta.

Caro Professore, mi rendo conto delle intenzioni che muovono il suo operato ma mi permetta di dirle che se ognuno di noi fosse libero di applicare le proprie regole personali – consentirà che il prossimo non sempre è affidabile – il caos e la confusione regnerebbero sovrane. Il suo è un vero e proprio arbitrio.
È del tutto evidente che un laureato, se ha conseguito negli esami la promozione, sia pure col voto minimo previsto dalla legge, può iscriversi all’albo – in questo caso, degli architetti – con assoluta tranquillità. Il 18/30 non è un voto cabalistico: significa che l’apprendimento essenziale nella disciplina in questione è stato raggiunto. Peraltro lei dovrebbe sapere che il voto è espresso in trentesimi perché la legge imponeva che la commissione d'esame fosse composta da tre docenti: si era approvati se, e soltanto se, tutti e tre esprimevano un voto in decimi maggiore o eguale a 6. La somma dei tre voti dava luogo al voto d'esame. Dunque il 18 significava che i tre docenti avevano (indipendentemente l'uno dall'altro) ritenuta sufficiente la preparazione dello studente.
Non è ammissibile - né in questo campo né in altri - lasciare al libero arbitrio dell’individuo le regole.
Seguendo il suo discorso, caro Prof. Pirazzoli, potrei stabilire che si debba affidare l'insegnamento universitario a chi abbia più di 1000 pubblicazioni delle quali 700 almeno in riviste straniere.
Oppure che, quale che sia il reato, per eliminare ogni rischio è bene che il colpevole si faccia almeno 30 anni di galera. La prudenza non è mai troppa.
È poi così certo che lei o i suoi colleghi non abbiate mai preso un voto inferiore al 27?
Anch'io sono un professore universitario e le posso dire di aver conosciuto molti docenti che avevano superato di misura certi esami a loro indigesti.
Un esempio limite: il prof. Wolf Gross, titolare della cattedra di Analisi numerica nell'università di Roma, avendo da studente litigato col docente di chimica (chissà se costui ritenesse fondamentale la sua disciplina) si rifiutò per sempre di sostenere quell'esame. Vinse il concorso pur non essendo laureato.
Aggiungerei che il suo bizzarro comportamento mi sembra addirittura illegale e che la sua intransigenza è forse sproporzionata se si pensa che - come lei testimonia - in altri paesi il restauro architettonico neppure si insegna.
Insomma, caro collega, le regole e le norme – fintanto che vivono – vanno rispettate.
E sono certo che tra i motivi per cui 76 studenti su 80 hanno abbandonato il suo corso vi fosse non già il timore dell'eccessivo rigore, ma il naturale rifiuto di una gratuita, inaccettabile prepotenza.
Infine la inviterei a leggere una indimenticabile lettera del grande Giuseppe Peano (datata 1912). Ne riporto l'ultima parte che mi sembra di estrema attinenza al nostro caso. Il succo è che il professore dovrebbe addirittura astenersi dall'esaminare. Non dico che si debba sposare questa tesi ma deve certo essere argomento di seria  riflessione.
Ogni amministrazione, privata o pubblica, ha il diritto di scegliere il 
suo personale coi criterii che crede più opportuni. Mentre gli esami di 
promozione sono spesso di poco valore, o dimostrano ferocia
nell'esaminatore, gli esami di concorso sono necessariamente serii, e 
difficili. Nessuno è bocciato agli esami di concorso; può riuscire o no 
nel numero prefissato degli eletti.

Mentre l'insegnamento è cosa grata, e per l'insegnante e per gli 
allievi, l'esame pone l'uno contro gli altri. Il lavoro che si fa negli 
ultimi giorni per prepararsi agli esami dà nessun profitto scientifico, e 
rovina la salute di tanti studenti piccoli e grandi. Il professore che 
riunisce la duplice qualità di insegnante e di esaminatore, non è 
riconosciuto bene dagli studenti se sia un amico o un nemico. 



Pater et 
judex, diceva un mio antico professore; e l'allievo non sa se amarlo come 
pater, o detestarlo come judex.

   Cordiali saluti   
                               Prof. Woland                                                                                         


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mercoledì 7 marzo 2012

Lettera a Busi.

I funerali di Lucio Dalla a Bologna
[Dal Prof. Woland per la Città Invisibile]


No caro Busi, stavolta non ci siamo: il suo articolo  non su ma contro Lucio Dalla davvero mi suscita molte perplessità.

Esaminiamone alcuni punti (in corsivo le citazioni tratte dall'articolo di Busi).
Un omosessuale non pubblicamente dichiarato che quindi se ne strafotta della morale sessuale cattolica, che mai nulla ha espresso contro l'omofobia di matrice clericale che impesta il suo Paese, che mai una volta ha preso posizione aperta per i diritti calpestati dei cittadini suoi simili di sventura politica e civile e razziale.
Capisco il suo punto di vista ma questo non significa che lei possa elevarlo a teorema. Dobbiamo rispettare le scelte, tutte le scelte, non solo quelle che ci fanno comodo. Non possiamo sapere cosa alberga nell'animo di un uomo.
Si può essere gay senza esserne fieri, portando sulle spalle una croce o una vergogna, evitando non solo di esibire la propria condizione ma cercando anzi di nasconderla. Un gay potrebbe addirittura disprezzare l'omosessualità - in se stesso e negli altri - e non ritenere né doveroso, né opportuno, né giusto difenderla. 
L'errore logico consiste nel ritenere naturale che si debba condividere e amare la propria condizione. Può semplicemente accadere di esserne vittima e di essere in totale dissenso con se stessi.*

Seguendo il suo ragionamento, caro Busi, gli afroamericani avrebbero dovuto odiare Michael Jackson colpevole di non aver esibito con orgoglio la sua origine afro, di non aver combattuto per i diritti dei suoi simili ma anzi di aver tentato - minando perfino la sua  salute - di apparire un bianco. 
E gli esempi si potrebbero moltiplicare.
Io, da parte mia, continuerò a pensare che i veri eroi di Bologna sono i famigliari delle vittime della Uno Bianca e della strage della stazione ferroviaria rimasta impunita, eroi silenziosi sempre più dimenticati, quasi rimossi, attorno a loro io non smetterò un istante di stringermi in un cordoglio senza fine, e purtroppo senza pace.
Questa poi è una sparata del tutto gratuita: nessuno pensa che Dalla sia un eroe e, peraltro, è un'astuzia retorica considerare eroi i famigliari delle vittime. Soffriamo insieme a loro, piangiamo per loro, chiediamo  giustizia per loro, ma lasciamo stare gli eroi.
Conta di più la vita o l'opera?
 Anche questa è retorica e la domanda non meriterebbe risposta.

L'opera non deve essere comparata all'artista. Il libro più letto e stampato nel modo, dopo la Bibbia, è Gli elementi di Euclide. Di Euclide non sappiamo praticamente nulla. È certo un peccato, ma nulla toglie alla grandezza della sua opera.
Il Caravaggio ebbe una vita dissoluta - si rese persino responsabile di un omicidio - ma si può trovare Dio anche in una sua tela in cui la modella della Madonna era una nota prostituta, sua amante.

Busi poi confessa di non conoscere le canzoni di Dalla. 
Non so se le canzoni di Dalla sono belle o brutte, come ne sento l'attacco alla radio, spengo.
Un buon motivo per astenersi da ogni giudizio. Milioni di persone hanno amato queste canzoni e la circostanza merita rispetto. 
Non basta la morte per cancellare la magagna del gay represso cattolico.
La morte di Dalla, caro Busi, è stata pianta da coloro che lo amavano per la sua musica. 
È vero la morte non cancella le magagne ma nessuno ha inteso farlo.
È stato semplicemente celebrato un artista, così come si celebra una persona amata, quale che sia stata la sua condotta di vita.

Sarebbe scontato dire "parce sepulto" se  l'epoca in cui viviamo comprendesse queste parole.

Ma caro Busi - grande scrittore che io ammiro e stimo - lei sì che dovrebbe comprenderle.
Per citare l'Ecclesiaste:

 c'è un tempo per tacere e uno per parlare”.

E questo, senza ombra di dubbio, era il il tempo per tacere.
_____________________________________________
*Inutile dire che sto solo considerando un'ipotesi fattuale del tutto indipendente da ogni giudizio di merito. Massimo Gramellini nel suo recente libro Fai bei sogni (Longanesi editore) racconta che per anni - da bambino -si era vergognato di essere orfano di madre e lo nascondeva agli amici.


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