Benvenuti nella città invisibile, ma non silente!

La città invisibile è una contraddizione in termini. Se una città esiste, con le sue case, le strade, i lampioni, gli abitanti, come può essere invisibile?! La città invisibile però c’è: è dentro ognuno di noi. Le fondamenta delle sue case sono quello che abbiamo costruito fino ad oggi, le nostre esperienze passate, gli avvenimenti della nostra vita. I mattoni delle case sono i nostri sogni, le aspettative, le speranze, tutto ciò che vorremmo fosse, domani, presto o tardi che sia. Le vie della città invisibile sono i nostri pensieri, che si ramificano innervandosi e collegano case, ponti, quartieri, costituendo una fitta rete di scambi e connessioni. La città invisibile è lo spazio vivo in cui ognuno si sente quello che è, ed è libero di esprimersi, di sognare, di dire “no”, persino di creare mondi diversi, realtà parallele: con la speranza che quel tesoro invisibile custodito dentro ognuno di noi possa rappresentare la fiaccola del cambiamento e si riesca a passarne, tutti insieme, il testimone. La via per riuscirci, a mio parere, è quella indicata da Italo Calvino: “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio".

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domenica 11 marzo 2012

Se il professore dà i numeri.

[Dal Prof. Woland per la Città Invisibile]

Nella rubrica delle lettere a la Repubblica del 3 marzo 2012 trovo la seguente lettera:
Insegno nella laurea magistrale una materia, Restauro, fondamentale per gli architetti.  In occasione della prima lezione ho come sempre preannunciato agli studenti che considererò come livello minimo di apprendimento un risultato che coincida col 27, al quale mi impegnerò a portarli. Altri ritengono che l'università sia come una gara olimpica dove al primo andrà la medaglia d'oro, cioè il 30, e agli ultimi, che arriveranno in gruppo, il 18. Un ragionamento condiviso da molti, soprattutto dagli studenti. Ma gli ultimi, in una gara podistica, forse poi si daranno all'ippica, mentre un laureato si iscriverà a un albo professionale e potrà fare danni per tutta la vita. Alla seconda lezione gli 80 iscritti previsti al corso si erano ridotti a cinque, 4 dei quali sono studentesse Erasmus venute in Italia per frequentare una materia, il restauro architettonico, che nel loro Paese non si insegna.
         Firmato: Prof. Nullo Pirazzoli
(Università Iuav di Venezia)


Ecco la mia risposta.

Caro Professore, mi rendo conto delle intenzioni che muovono il suo operato ma mi permetta di dirle che se ognuno di noi fosse libero di applicare le proprie regole personali – consentirà che il prossimo non sempre è affidabile – il caos e la confusione regnerebbero sovrane. Il suo è un vero e proprio arbitrio.
È del tutto evidente che un laureato, se ha conseguito negli esami la promozione, sia pure col voto minimo previsto dalla legge, può iscriversi all’albo – in questo caso, degli architetti – con assoluta tranquillità. Il 18/30 non è un voto cabalistico: significa che l’apprendimento essenziale nella disciplina in questione è stato raggiunto. Peraltro lei dovrebbe sapere che il voto è espresso in trentesimi perché la legge imponeva che la commissione d'esame fosse composta da tre docenti: si era approvati se, e soltanto se, tutti e tre esprimevano un voto in decimi maggiore o eguale a 6. La somma dei tre voti dava luogo al voto d'esame. Dunque il 18 significava che i tre docenti avevano (indipendentemente l'uno dall'altro) ritenuta sufficiente la preparazione dello studente.
Non è ammissibile - né in questo campo né in altri - lasciare al libero arbitrio dell’individuo le regole.
Seguendo il suo discorso, caro Prof. Pirazzoli, potrei stabilire che si debba affidare l'insegnamento universitario a chi abbia più di 1000 pubblicazioni delle quali 700 almeno in riviste straniere.
Oppure che, quale che sia il reato, per eliminare ogni rischio è bene che il colpevole si faccia almeno 30 anni di galera. La prudenza non è mai troppa.
È poi così certo che lei o i suoi colleghi non abbiate mai preso un voto inferiore al 27?
Anch'io sono un professore universitario e le posso dire di aver conosciuto molti docenti che avevano superato di misura certi esami a loro indigesti.
Un esempio limite: il prof. Wolf Gross, titolare della cattedra di Analisi numerica nell'università di Roma, avendo da studente litigato col docente di chimica (chissà se costui ritenesse fondamentale la sua disciplina) si rifiutò per sempre di sostenere quell'esame. Vinse il concorso pur non essendo laureato.
Aggiungerei che il suo bizzarro comportamento mi sembra addirittura illegale e che la sua intransigenza è forse sproporzionata se si pensa che - come lei testimonia - in altri paesi il restauro architettonico neppure si insegna.
Insomma, caro collega, le regole e le norme – fintanto che vivono – vanno rispettate.
E sono certo che tra i motivi per cui 76 studenti su 80 hanno abbandonato il suo corso vi fosse non già il timore dell'eccessivo rigore, ma il naturale rifiuto di una gratuita, inaccettabile prepotenza.
Infine la inviterei a leggere una indimenticabile lettera del grande Giuseppe Peano (datata 1912). Ne riporto l'ultima parte che mi sembra di estrema attinenza al nostro caso. Il succo è che il professore dovrebbe addirittura astenersi dall'esaminare. Non dico che si debba sposare questa tesi ma deve certo essere argomento di seria  riflessione.
Ogni amministrazione, privata o pubblica, ha il diritto di scegliere il 
suo personale coi criterii che crede più opportuni. Mentre gli esami di 
promozione sono spesso di poco valore, o dimostrano ferocia
nell'esaminatore, gli esami di concorso sono necessariamente serii, e 
difficili. Nessuno è bocciato agli esami di concorso; può riuscire o no 
nel numero prefissato degli eletti.

Mentre l'insegnamento è cosa grata, e per l'insegnante e per gli 
allievi, l'esame pone l'uno contro gli altri. Il lavoro che si fa negli 
ultimi giorni per prepararsi agli esami dà nessun profitto scientifico, e 
rovina la salute di tanti studenti piccoli e grandi. Il professore che 
riunisce la duplice qualità di insegnante e di esaminatore, non è 
riconosciuto bene dagli studenti se sia un amico o un nemico. 



Pater et 
judex, diceva un mio antico professore; e l'allievo non sa se amarlo come 
pater, o detestarlo come judex.

   Cordiali saluti   
                               Prof. Woland                                                                                         


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