Benvenuti nella città invisibile, ma non silente!

La città invisibile è una contraddizione in termini. Se una città esiste, con le sue case, le strade, i lampioni, gli abitanti, come può essere invisibile?! La città invisibile però c’è: è dentro ognuno di noi. Le fondamenta delle sue case sono quello che abbiamo costruito fino ad oggi, le nostre esperienze passate, gli avvenimenti della nostra vita. I mattoni delle case sono i nostri sogni, le aspettative, le speranze, tutto ciò che vorremmo fosse, domani, presto o tardi che sia. Le vie della città invisibile sono i nostri pensieri, che si ramificano innervandosi e collegano case, ponti, quartieri, costituendo una fitta rete di scambi e connessioni. La città invisibile è lo spazio vivo in cui ognuno si sente quello che è, ed è libero di esprimersi, di sognare, di dire “no”, persino di creare mondi diversi, realtà parallele: con la speranza che quel tesoro invisibile custodito dentro ognuno di noi possa rappresentare la fiaccola del cambiamento e si riesca a passarne, tutti insieme, il testimone. La via per riuscirci, a mio parere, è quella indicata da Italo Calvino: “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio".

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domenica 18 marzo 2012

La lotta di classe? Continua...


[Dal Prof. Woland per la Città Invisibile]


Negli ultimi decenni la cultura dominante ha tentato di accreditare la  teoria che le classi non esistano più e che la lotta di classe non è altro che un fossile del vetero comunismo. Si tratta di un inganno che è anche parzialmente riuscito.

Viene in mente la profezia (1926) dell'anarchico gallese Gafyn Llawgoch:
 Il socialismo perderà perché il capitalismo convincerà i servi di essere padroni.
Ora è senz'altro vero che dal dopoguerra in poi, sia in Italia che nel resto delle democrazie occidentali, l'ascensore sociale ha innalzato milioni di individui allo status di cittadini consentendo loro l'accesso ai consumi (cellulare, tv, computer, viaggi, vacanze) ma, a parte il fatto che dagli anni '80 in poi sembrerebbe che sull'ascensore ci sia la scritta out of order, questo non significa certo la fine delle classi sociali.

Troviamo una convincente dimostrazione di questa asserzione in un bel saggio, fresco di stampa, del sociologo Luciano Gallino (professore emerito dell'Università di Torino) dal significativo titolo La lotta di classe dopo la lotta di classe (Laterza, marzo 2012).
Luciano Gallino
La lotta di classe oggi è quella di chi non è soddisfatto del proprio destino, e vuole cambiarlo, e quella di chi invece è soddisfatto del proprio destino e vuole difenderlo
dice l'autorevole sociologo.

La presentazione del libro riassume mirabilmente le vicende che stiamo dolorosamente vivendo sulla nostra pelle:
La caratteristica saliente della lotta di classe alla nostra epoca è questa: la classe di quelli che possiamo definire genericamente i vincitori sta conducendo una tenace lotta di classe contro la classe dei perdenti. Dagli anni Ottanta, la lotta che era stata condotta dal basso per migliorare il proprio destino (vedi il mio post La fine del compromesso tra capitalismo e democraziaha ceduto il posto a una lotta condotta dall'alto per recuperare i privilegi, i profitti e soprattutto il potere che erano stati in qualche misura erosi nel trentennio precedente. Questo è il mondo del lavoro nel XXI secolo, così è cambiata la fisionomia delle classi sociali, queste sono le norme e le leggi volute dalla classe dominante per rafforzare la propria posizione e difendere i propri interessi. L'armatura ideologica che sta dietro queste politiche è quella del neoliberalismo, teoria generale che ha dato un grande contributo alla finanziarizzazione del mondo e che ha avuto una presa tale da restare praticamente immutata nonostante le clamorose smentite cui la realtà l'ha esposta. La competitività che tale teoria invoca e i costi che la competitività impone ai lavoratori costituiscono una delle forme assunte dalla lotta di classe ai giorni nostri. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: aumento delle disuguaglianze, marcata redistribuzione del reddito dal basso verso l'alto, politiche di austerità che minano alla base il modello sociale europeo. 
Eric Hobsbawm, 95 anni.
 Quasi un anno fa avevo scritto un post in cui segnalavo l'ultimo libro di Eric Hobsbawm Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l'eredità del marxismo (Milano, Rizzoli, 2011).

Il Capitalismo, dice in sostanza anche il grande storico carico d'anni e di saggezza, non è palesemente  in grado di autoregolarsi.
Basti pensare alle grandi crisi economiche e finanziarie di cui siamo stati recentemente testimoni, al pericolo di default che corrono alcuni stati, agli squilibri sempre più marcati tra ricchi e poveri, ai problemi di lavoro e di welfare.
Non possiamo dunque affidarci né al mercato né alle esperienze del secolo scorso:
Per regolare il futuro dell'economia mondiale si renderà necessaria una qualche nuova forma di pianificazione.
E qui entra in gioco Marx. Molte delle sue  previsioni si sono rivelate profetiche quindi - ora che sono cadute le grandi ideologie che impedivano un giudizio sereno - Marx può essere considerato per quello che è sempre stato: un grande pensatore ed un pioniere. Insomma, afferma  Hobsbawm:
È finalmente giunto il momento di prendere Marx sul serio.
Fin qui le analisi. Ma a questo punto ci prende il panico.

Tra il dire e il fare...



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