Benvenuti nella città invisibile, ma non silente!

La città invisibile è una contraddizione in termini. Se una città esiste, con le sue case, le strade, i lampioni, gli abitanti, come può essere invisibile?! La città invisibile però c’è: è dentro ognuno di noi. Le fondamenta delle sue case sono quello che abbiamo costruito fino ad oggi, le nostre esperienze passate, gli avvenimenti della nostra vita. I mattoni delle case sono i nostri sogni, le aspettative, le speranze, tutto ciò che vorremmo fosse, domani, presto o tardi che sia. Le vie della città invisibile sono i nostri pensieri, che si ramificano innervandosi e collegano case, ponti, quartieri, costituendo una fitta rete di scambi e connessioni. La città invisibile è lo spazio vivo in cui ognuno si sente quello che è, ed è libero di esprimersi, di sognare, di dire “no”, persino di creare mondi diversi, realtà parallele: con la speranza che quel tesoro invisibile custodito dentro ognuno di noi possa rappresentare la fiaccola del cambiamento e si riesca a passarne, tutti insieme, il testimone. La via per riuscirci, a mio parere, è quella indicata da Italo Calvino: “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio".

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martedì 27 marzo 2012

Bussole e cannocchiali.


Su Repubblica di ieri, Mario Pirani solleva una problematica non da poco: esiste nella scuola una questione morale?
Lo spunto della riflessione nasce dagli strafalcioni linguistici delle prove d'italiano della maturità raccolte dall'Invalsi.
Pirani contesta le analisi semplicistiche che vedono la causa principale di questo degrado nella semplificazione indotta dalla "lingua del computer" e sostiene invece che:
alla radice vi è il venir meno dello studio come "dovere", come "obbligo" che impone fatica, con "risultati" che vengono premiati o sanzionati."
A supporto di questa sua ipotesi, cita un saggio di Marcello Dei, dal titolo Ragazzi si copia. A lezione di imbroglio nelle scuole italiane, in cui una delle tesi principali dell'autore è la seguente: "la pedagogia della comprensione è diventata benevolenza a buon mercato o addirittura complicità".

Qualche considerazione sparsa.

Concordo con Pirani che ridurre la questione della regressione della lingua all'uso sempre più frequente della "lingua del computer" è quantomeno fuorviante, se non addirittura sbagliato.

Allo stesso modo, tuttavia, ricondurre l'involuzione linguistica dei nostri studenti al "venir meno dello studio come dovere e come obbligo che impone fatica" mi pare volere a tutti i costi orientare la discussione rinunciando all'analisi - che pure Pirani auspica - e mettendo sul piatto una conclusione già definita.
Che purtroppo invece - o per fortuna - non è affatto così scontata.

Il dibattito sul modello pedagogico da adottare, difatti, è tutt'altro che chiuso.
Puntare su un modello non autoritario, attivo, collaborativo, impostato sullo studio come piacere, anziché come dovere, non significa affatto creare automaticamente classi di individui riottosi ad ogni forma di rigore, sciatti dal punto di vista della disciplina, vogliosi soltanto di copiare quando possibile e comunque intenti solo ad organizzarsi al  meglio per raggirare l'insegnante di turno (ho liberamente tradotto le parole di Dei citate da Pirani: "ragazzini che vengono addestrati, nei comportamenti quotidiani, a sviluppare una mentalità mafiosa, fatta di complicità contro le istituzioni (...) una solidarietà omertosa, in cui l'obiettivo comune è dato dall´ingannare chi è in cattedra").

So che questo è un punto considerato da molti indigesto, ma la formula secondo cui dovere+fatica=risultati è fuorviante, se non addirittura sbagliata. 

Come è erroneo il ragionamento per cui tutti i mali della scuola sono da ricondurre (solo e principalmente) alla "benevolenza a buon mercato" veicolata dalla scuola, cioè dagli insegnanti.
Il fatto cioè che vi possa essere da parte degli insegnanti una tendenza ad interpretare la propria leadership in modo eccessivamente democratico o persino laissez-faire, non implica di per sé che il depauperamento delle competenze linguistiche dei nostri giovani sia da attribuirsi tout-court a quel tipo di leadership.

Tantomeno siamo in possesso di dati scientifici che confermano che l'approccio dovere+fatica nell'istruzione avrebbe portato - o porterebbe - ad una sicura padronanza linguistica.
Il confronto col passato è perdente.
I modelli culturali legati alla didattica devono presupporre un'attenta lettura del contesto storico e sociale in cui viviamo.

È sacrosanto interrogarsi su quale modello pedagogico vogliamo per i nostri giovani, oggi.

Ma tutto sta in quell' "oggi".

È pensabile, oggi, o se preferite è realizzabile un modello di disciplina autoritario impostato sul concetto di apprendimento come fatica?

La risposta è no, non è pensabile. È anacronistico e fuori contesto.

I ragazzi oggi arrivano a scuola con altre capacità e aspettative, rispetto a ieri e con un'autonomia cognitiva del tutto diversa.
Una su tutte? Loro sono nativi digitali, molti insegnanti no: quale autoritarismo può rovesciare la supremazia degli alunni sui loro insegnanti nell'era digitale, cioè nella loro era?
E questo semplice dato di contesto può non avere un effetto sul rapporto insegnante/allievo (con quest'ultimo che, a ragione, può spesso pensare di essere "avanti anni luce" rispetto al proprio insegnante?!).

I problemi della nostra scuola oggi, sono ben altri dalla questione morale (presente, per carità, ma scusate la battuta scontata: siamo in Italia!). Che va trattata qual è, cioè uno dei tanti effetti di cause ben più rilevanti.

In ordine rigorosamente sparso (mi siano concesse le generalizzazioni, per semplificare un tema così complesso):

1. Si è lacerato e praticamente dissolto il rapporto tra genitori e insegnanti.
Non c'è un patto, non c'è un progetto vero - né tacito né esplicito - che lega famiglia e scuola nell'obiettivo di sviluppare gli adulti di domani. Le scuole, nelle vite complesse e senza tempo di molti genitori, sono diventate dei parcheggi in cui lasciare custoditi i propri figli durante la giornata lavorativa. Gli insegnanti parlano coi genitori, quando va bene, una volta al mese. L'argomento principale solitamente sono i voti, mentre la crescita emotiva dei piccoli umani è sottintesa e sottaciuta. Quando lo ritengono necessario - sempre più spesso - i genitori si schierano convinti, a spada tratta, contro la scuola, rea di commettere ingiustizie, di sottovalutare i loro figli - tutti geni incompresi - di attentare alla loro stabilità emotiva facendo confronti e pretendendo cose impossibili.
Il risultato? In tutta questa situazione conflittuale, il piccolo umano cresce nella convinzione che l'istituzione (=la scuola) è un nemico che attenta alla sua incolumità, un mostro da combattere con tutti i mezzi per salvare la pelle... magari con l'astuzia, o con l'inganno...

2. I luoghi dell'apprendimento, i metodi per l'apprendimento, i contenuti relativi all'apprendimento, a fronte di una rivoluzione sociale epocale (scatenata dai mezzi digitali, ma non solo), sono cambiati poco o nulla.
La nostra scuola - salvo alcune rare isole felici - è ad oggi una realtà fuori dal tempo, con insegnanti "antichi" che - giustamente - faticano a rovesciare il classico metodo frontale in uno attivo, innovativo, collaborativo.  Rovesciamento necessario, aggiungo, perché il vecchio modello pedagogico basato sul trasferimento ex cathedra di nozioni non può più funzionare: sono cambiate le capacità e le modalità legate alla sfera dell'attenzione; è cambiato il modo in cui pensiamo alle cose e vediamo le cose stesse.
Che ci piaccia o no, la realtà è questa.

La questione dell'apprendimento come fatica - nel senso di sacrificio - è un'altra favola che ci vogliamo raccontare per resistere al cambiamento necessario.
La vera sfida oggi, relativa all'istruzione, è cercare di capire quali sono le competenze da sviluppare e qual è il metodo migliore per farlo.

Il sapere un tempo era verticale e statico, racchiuso com'era nei templi della conoscenza, cioè le biblioteche o le menti dei sapienti.
Oggi la conoscenza esplora nuove dimensioni, orizzontali e dinamiche: con un click sono in biblioteca, trovo un'etimologia, vado su Wikipedia e guardo un dipinto, faccio un tour virtuale di Roma antica...

E allora l'interrogativo, semplice semplice, è il seguente: che senso può avere una scuola che pretende di essere ancora una miniera di informazioni quando quelle informazioni oramai sono ovunque (anzi ce ne sono infinitamente di più, in giro), accessibili a tutti con pochi semplici gesti?

Non è forse il caso che la scuola punti a diventare il luogo in cui si insegna primariamente a costruire significati, a discernere ed orientarsi tra i miliardi di informazioni disponibili, a stabilire connessioni di senso tra le nozioni sparse e in perenne divenire?

Forse allora si potrebbe percepire lo stare a scuola come un vero dovere, come un obbligo sensato, perché la scuola sarebbe lo strumento indispensabile per decodificare il mondo, per orientarsi, per viaggiare in modo consapevole, per costruire sapientemente le proprie rotte.

Un tempo, dalla terraferma, si insegnava che esistevano i mari e gli oceani e che per sopravvivere bisognava saper costruire un'imbarcazione quanto più solida possibile con l'obiettivo di riuscire un giorno a mettersi in mare e condurre una navigazione sicura.

Oggi nasciamo in mare aperto. Navigare è ciò che ci viene "naturale".
Servono una buona bussola, un cannocchiale, l'abilità di riparare - all'occorrenza - l'imbarcazione di cui siamo dotati, la capacità di decifrare i segni che vediamo sulle mappe delle rotte.
E un filo tenace che colleghi la nostra imbarcazione a quelle degli altri, tenendo unito il senso di una collettività dinamica ed itinerante che si riconosca come tale e sia in grado di mantenersi solida tra un attracco e l'altro.

Io la vedo così, la scuola di oggi, quella di domani.

Realizzando il meraviglioso concetto espresso da James Hillman nel suo Il piacere di pensare:

Il “luogo dell’apprendimento si trova ovunque la mente diventi viva.


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