Beh, devo dire che mi fa un certo effetto: il mio primo post!
E' stata dura scegliere con quale argomento iniziare.
Vorrei affidare alle pagine di questo blog riflessioni sulla società (che non gode di ottima salute), sulla cultura (che è decisamente malandata), sulla politica (che, specie in Italia, vive un momento di coma, speriamo reversibile), ma come cominciare, se è vero - per dirla con Orazio - che
dimidium facti qui coepit habet (chi comincia è a metà dell'opera)?!
Nel tentativo di sciogliere questo dilemma, vorrei dare inizio alle danze con una riflessione di carattere generale sui nomi che diamo alle cose.
Italo Calvino ha scritto:
"Alle volte mi sembra che un'epidemia pestilenziale abbia colpito l'umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l'uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l'espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze."
(da Lezioni Americane, L'Esattezza)
Beh, inutile dire che l'epidemia di cui parlava Calvino negli anni 80 potrebbe probabilmente essere definita oggi "pandemia"!
Quello che a parer mio sta diventando preoccupante è che anche in campi non sospetti, come quello della cultura, il virus si propaga con una rapidità direi quasi selvaggia.
Un esempio?
Un paio di giorni fa ho visitato la valle dei templi ad Agrigento (meravigliosa: se non l'avete vista, pianificate quanto prima un viaggetto da quelle parti).
Ebbene sui cartelli che recavano la denominazione dei templi (di origine greca) campeggiavano spesso i nomi degli dei romani anziché di quelli greci: il tempio di Zeus Olimpico veniva dunque presentato come Tempio di Giove, quello di Eracle era diventato di Ercole, e così via.
Ma santi numi - verrebbe da dire - possibile che chi ha scritto i cartelli esplicativi non abbia ritenuto importante non far figurare un tempio dedicato ad una divinità greca come un tempio dedicato ad una divinità romana (anche se le divinità, come si usa dire con un'espressione che non amo, sono "equivalenti")?!
A Cesare quel che è di Cesare.
Mi rendo conto che questa può apparire una questione di lana caprina, e tuttavia mi chiedo e vi chiedo: non è questa una forma di imbarbarimento culturale?! Di analfabetismo intellettuale di ritorno?
Le parole e i nomi, nell'era dei nuovi media e della comunicazione, quanto e come sono realmente importanti?
Servono solo a tracciare collegamenti in superficie, premiando la rapidità delle connessioni logiche (e Giove e sicuramente più rapido di Zeus!), seppure a scapito dell'esattezza?
Questa di surfare in superficie senza scendere in profondità (per riprendere una metafora di Baricco, da I Barbari) è il moderno approccio culturale per cui dobbiamo abituarci a sacrificare sempre e comunque l'analisi a vantaggio della sintesi (sia pur imprecisa)?
Vogliamo parlarne?
P.P. [Post Post] Leggevo ieri su Repubblica un bell'articolo sull'importanza delle corrette traduzioni letterarie (Tradotti&Traditi, di Paolo Mauri, pp.34-5). L'esempio era quello di Thomas Mann: la sua "Montagna Incantata", in realtà sarebbe dovuta tradursi con "La Montagna Magica". Qualcuno lo ha detto e ripetuto, ma il successo della nuova (e corretta) traduzione tarda ad arrivare (troppo abituati al vecchio - ed inesatto - titolo).
Io sono fra quelli che pensano che se mi parlano di Cesare, sarà di Cesare che riferirò (e non di Attila, né di Gengis Khan).
E voi? Da che parte state?
Dare a Cesare il nome di Cesare?