Benvenuti nella città invisibile, ma non silente!

La città invisibile è una contraddizione in termini. Se una città esiste, con le sue case, le strade, i lampioni, gli abitanti, come può essere invisibile?! La città invisibile però c’è: è dentro ognuno di noi. Le fondamenta delle sue case sono quello che abbiamo costruito fino ad oggi, le nostre esperienze passate, gli avvenimenti della nostra vita. I mattoni delle case sono i nostri sogni, le aspettative, le speranze, tutto ciò che vorremmo fosse, domani, presto o tardi che sia. Le vie della città invisibile sono i nostri pensieri, che si ramificano innervandosi e collegano case, ponti, quartieri, costituendo una fitta rete di scambi e connessioni. La città invisibile è lo spazio vivo in cui ognuno si sente quello che è, ed è libero di esprimersi, di sognare, di dire “no”, persino di creare mondi diversi, realtà parallele: con la speranza che quel tesoro invisibile custodito dentro ognuno di noi possa rappresentare la fiaccola del cambiamento e si riesca a passarne, tutti insieme, il testimone. La via per riuscirci, a mio parere, è quella indicata da Italo Calvino: “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio".

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giovedì 5 aprile 2012

La vita si sconta vivendo.

Una sequoia può superare i duemila anni di vita 
Dal Prof. Woland per la Città Invisibile]

Il caro amico Diego scrive (qui):
È oltraggio al passato,  meschinità del presente, furto del futuro provo un dolore fisico, quando viene abbattuto un albero secolare.
 Un grido di dolore che segnala un  tema di estrema complessità.

Occorrerebbe affrontare il discorso - tenendo a freno, se possibile, l'emotività - con grande pazienza e non so quale ne sarebbe l'esito. 
Mi limiterò a qualche breve osservazione.
Se i castori si moltiplicassero a dismisura e abbattessero tutti gli alberi di una regione del pianeta, parleremmo di barbarie?
Se le zanzare del genere Anopheles uccidessero tutti gli uomini dell'Africa parleremmo di barbarie?

Tutti gli esseri viventi modificano l'ambiente: noi stessi nascendo e riproducendoci modifichiamo l'ambiente. Certo possiamo affermare che l'uomo è estremamente  attivo in tal senso: le sue conoscenze scientifiche gli hanno consentito e gli consentono vieppiù di modificarlo (l’uomo “cancro del pianeta”, secondo la fortunata espressione di James Lovelock secondo la quale il colpevole dello sfacelo ambientale sarebbe l’uomo stesso, che espanderebbe la sua attività in modo incontrollato, un po’ come fanno le cellule tumorali in un organismo). Si potrebbe sostenere - e i più lo fanno - che ormai noi esseri umani dovremmo aver maturato la capacità di capire quali siano i limiti del nostro operare. Ma può darsi che tali limiti non esistano o non siano previsti nella nostra specie (l'ipotesi è adombrata anche da Jean d'Ormesson nel suo bel libro C'est une chose étrange à la fin que le monde). Forse uccideremo semplicemente, banalmente, l'ospite (la terra) così come fanno i virus o microbi con il loro ospite (l'organismo che contagiano).
Forse semplicemente non c'è cura, non c'è antibiotico o antivirale per la malattia chiamata "uomo".
Forse, semplicemente, non c'è nulla da dire.
Siamo solo un'espressione del caso.
Anch'io sento un infinita tristezza quando viene uccisa una pianta secolare. Ma credo che queste emozioni siano delle nostre sovrastrutture. Gli uomini hanno prosciugato i laghi (penso al Fucino), deviato il corso dei fiumi, spianato colline, ucciso un'infinità di loro simili, di animali, da sempre. Un lago non ha la stessa dignità di una pianta? E che dire degli animali che alleviamo - spesso in condizioni terribili - infliggendo loro indicibili sofferenze per sacrificarli sulle nostre tavole? Che dire degli animali domestici che abbiamo "modificato" per renderli in sostanza nostri schiavi o compagni, magari sterilizzandoli e privandoli del loro habitat naturale? Poc'anzi ho sentito la porta dell'ascensore ed il cane dei vicini che abbaiava. Cosa c'è di giusto nell'avere, nei millenni, addestrato il cane a fare la guardia ai nostri beni?

Non c'è un senso in nessuna delle cose che facciamo.

Però noi sentiamo  e soffriamo di conseguenza.

La vita si sconta vivendo.


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Commenti (6)

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c'è un aspetto della questione, caro prof. w., che nella sua pur interessante considerazione, non è presente e a mio avviso va messo sul tappeto

quando noi abbattiamo un albero secolare, non è che operiamo un «semplice» danno alla natura, ma anche alla nostra stessa civiltà, in quanto moltissime piante, perssochè tutte quelle che stanno in una città, sono piantumazioni antropiche; del resto anche i castagni dell’appennino lo sono, come lo sono tutte i bei giardini presenti un po’ ovunque in piccole e grandi città

dunque, la difesa degli alberi non la rubricherei come difesa della natura sic et simpliciter, ma come difesa di un modello culturale, di un valore storico, di un patrimonio di salute e bellezza del tutto umano, quasi umanistico

detto questo, non è in contrasto alle sue considerazioni, ma è per offrire un’angolazione più ampia del tema
4 risposta · attivo 678 settimane fa
Caro Diego,
non era affatto mia intenzione derubricare la difesa degli alberi. Era mia intenzione - ma forse non sono riuscito nell'intento - dimostrare che qualunque pretesa umana è priva di senso. La civiltà, la cultura, la storia, la bellezza, l'umanesimo sono soltanto invenzioni antropocentriche e null'altro. Ciò detto io me n'andrò zitto tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto. Parafrasando: dopo aver illuminato per un attimo il backstage tornerò sul palcoscenico a recitare - con alterno umore - la parte che mi è stata assegnata.
Spero con queste righe di rispondere anche alla cara Lisa.
la questione del "senso ultimo" è profonda, caro prof. w., ma in definitiva io sono abbastanza quietamente rassegnato alla finitezza umana e dentro di essa mi colloco, e dentro di essa secondo me è lecito compiere delle scelte, nella consapevolezza che siamo sempre e comunque dentro il nostro mondo antroposcopico;

userò una metafora: siamo su un treno, non sappiamo dove arriverà, non sappiamo neanche perchè ci siamo saliti, non sappiamo cosa sia quel paesaggio che scorre ai finestrini; ma, nel compartimento ci sono 6 posti a sedere e noi viaggiatori siamo 12, nonostante l'incertezza sulla natura del viaggio, mi pare evidente dire "facciamo un po' per uno, a star seduti, evitiamo che 6 stiano sempre seduti e gli altri sempre in piedi"; ecco, questo è il senso, caro prof. w.
Caro Diego,
il suo buon senso - amatissimo amico - mi commuove.
Ciò che a me però preme sottolineare è che la scelta degli assiomi - in questa assurda teoria ipotetico-deduttiva che è la vita -è del tutto arbitraria e che quindi anche le proposizioni che ci appaiono assolutamente vere sono semplicemente vere in una certa teoria, discendono da certi assiomi.
Si potrebbe dimostrare con assoluto rigore deduttivo - dipenderebbe solo dalla scelta degli assiomi - che la scelta migliore - per il bene di tutti - è che in quel treno seggano solo i sei più forti e gli altri restino in piedi. Oppure i sei più intelligenti o i sei più abili in qualche campo o i sei più deboli. Oppure che non segga nessuno per non usurare i sedili. Oppure che seggano uno sopra l'altro.
Il caro buon senso, come il senso del pudore, è semplicemente una convenzione.
Proprio per questo però, non volendo sposare il nichilismo assoluto, ho scritto che dopo aver detto queste spiacevoli e nulla affatto rassicuranti parole "tornerò sul palcoscenico a recitare la mia parte, quale che sia. La vita è un gioco e nulla è più serio di un gioco: basta osservare i bambini per capirlo e riflettiamo pure su quanto sia traumatica, per il bimbo, anche la più lieve variazione nella trama della favola. Così generalmente è anche per gli uomini. Solo che quella favola è la vita.
sono sostanzialmente d’accordo sulla considerazione che vi sia sempre, alla base, un «gioco», una scelta arbitraria, ma forse è meglio, in qualche modo, scegliere il gioco che fa meno male, il gioco che si ritiene, seppur con il beneficio del dubbio, il meno foriero di sofferenza

secondo me la sofferenza, il dolore, è una percezione comunque oggettiva, misurabile, e, in qualche modo, ci permette di compiere, per evitarlo, delle scelte che hanno comunque un senso

sono convinto anch’io che non c'è un senso assoluto, giacchè l’idea stessa di un senso, di un significato «autentico» del vivere è un’idea umana, un attrezzo psicologico
Condivisibile tesi ...."in una testa senza mondo".
Ma, caro Professore, perché allora scendere in campo per l'articolo 18?
Non sono, forse, anche quelle ragioni di etica?
Aggiungerei che la vita si sconta e si gode vivendo.

Lisa

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