Benvenuti nella città invisibile, ma non silente!

La città invisibile è una contraddizione in termini. Se una città esiste, con le sue case, le strade, i lampioni, gli abitanti, come può essere invisibile?! La città invisibile però c’è: è dentro ognuno di noi. Le fondamenta delle sue case sono quello che abbiamo costruito fino ad oggi, le nostre esperienze passate, gli avvenimenti della nostra vita. I mattoni delle case sono i nostri sogni, le aspettative, le speranze, tutto ciò che vorremmo fosse, domani, presto o tardi che sia. Le vie della città invisibile sono i nostri pensieri, che si ramificano innervandosi e collegano case, ponti, quartieri, costituendo una fitta rete di scambi e connessioni. La città invisibile è lo spazio vivo in cui ognuno si sente quello che è, ed è libero di esprimersi, di sognare, di dire “no”, persino di creare mondi diversi, realtà parallele: con la speranza che quel tesoro invisibile custodito dentro ognuno di noi possa rappresentare la fiaccola del cambiamento e si riesca a passarne, tutti insieme, il testimone. La via per riuscirci, a mio parere, è quella indicata da Italo Calvino: “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio".

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martedì 24 gennaio 2012

La morte e il morire.

Il Sassolungo della Val Gardena.

[Dall'amico gardenese  Marco Forni, lessicografo e traduttore, riceviamo e volentieri pubblichiamo


La morte e il morire: due parole mute che continuano a fare un silenzio assordante dentro di noi.
Meglio non pensarci, parliamo d’altro: finalmente è arrivata la neve e inizia la stagione.
In vita taluni tentano di buttare la chiave del loro stare al mondo nelle urne di chi non c’è più. Requiescantinpaceamen e andiamo avanti, non c’è tempo da perdere.
Altri, pervasi da velleità d’eternità, traducono maldestramente la locuzione dei frati trappisti memento mori con: ricordati di morire, come a dire che gli smemorati corrono il rischio di vivere in eterno.
Una delle poche certezze della vita è che prima o poi toccherà anche a noi.

Fino a un attimo prima però noi ci ritroviamo, volenti o nolenti, a dover fare i conti non solo con le agenzie di rating sparse per mari e Monti, ma soprattutto con la morte degli altri.
La morte di persone a noi lontane possono intirizzire i nostri sensi il tempo di una notizia. La perdita di una persona cara, invece, ci sconvolge, ci lascia senza parole. Veniamo colti dalla paura. Il credo nell’esistenza di un aldilà si fortifica o s’indebolisce a seconda dei canoni che ci sono stati inculcati dalla morale comune.
Perché ci lasciamo sopraffare da un senso d’impotenza, di perdita irreversibile?
Forse perché continuiamo ad aggrapparci disperatamente alla fisiognomica, alla corporeità, dei sentimenti, degli affetti. Dobbiamo poter toccare, vedere, per riuscire a „credere“. Quando il corpo si svuota dall’identità definita che gli è stata appiccicata addosso da un ufficio d’anagrafe, sembra esaurirsi tutta la sua ragion d’essere.
Per chi resta a guardare e senteziare parole prese a prestito, permane la sensazione di una paura fottuta di quella che chiamiamo morte (o forse è il „morire“ con dolore che ci terrorizza di più). La nostra morte è un accadimento al quale non possiamo più renderci partecipi. Sono altri che pasticciano la sceneggiatura e assumono il ruolo di protagonisti, interpreti della nostra morte, per riaffermare il senso acquisito della propria vita.
È consolatorio barricarsi dietro il diritto alla vita; un alibi per sentirsi dalla parte del giusto e non andare a intralciare pensieri pronti all’uso. L’accanimento terapeutico è rispetto della vita o è un modo per tentare di accomodare la propria coscienza?
Affidare una persona cara alla morte, lasciarla andare, può tradursi in un estremo atto d’amore. Continuerà a raccontarsi, a riproporsi sotto un altro sembiante dentro di noi.

Il sorriso carezzato di serenità di Leah Beth non è acconciato. È stato plasmato dal dolore e dalla sofferenza; esprime un senso di pulizia e mi porta a dire: „Lasciatemi andare, devo sbrigare una faccenda, poi torno“. Ed è già tornata, continua a raccontarsi a noi e a scalfire le certezze, usa e getta, che ci lasciamo cucire addosso per colmare le nostre inquietudini.
Leah Beth voleva colori sgargianti e sorrisi al suo funerale. Lei ha avuto il tempo di andare incontro al buio; il buio che contiene tutti i colori, se ti accorgi di poter accendere la luce e di regalarla agli altri prima che si spenga. Le nostre certezze possono essere invalidanti. Sono riempitivi per convincerci (illuderci) di stare sempre dalla parte della ragione. Sono gli altri dalla parte del torto.
È il dubbio che ci rende più umani, più perfettibili.
Lo stare al mondo può risolversi nel quanto, l’esserci nel come.
E se questo fosse l’ultimo giorno della mia vita come vorrei viverlo?
Quali conti mi andrebbe di far quadrare?
Forse semplicemente riconciliarmi con gli altri e con me stesso.
Il pensiero della morte può essere ingannevole se ci fa dimenticare di vivere e di coltivare gli affetti, i sentimenti, i dubbi che costellano la nostra esistenza.

Socrate vuota impassibile la coppa del veleno e va incontro serenamente al proprio destino di morte decretato dai benpensanti. Platone gli mette in bocca parole intagliate nella roccia: „Ma ecco che è l’ora di andare: io a morire, voi a vivere. Chi di noi due vada verso il meglio è oscuro a tutti (ometto volutamente le ultime parole che ognuno ha il diritto di aggiungere o togliere: fuori che a Dio).“

Leah Beth ci affida un lascito prezioso, quello di continuare a coltivare l’umanità della persona e il senso della misura. La morte è una parola muta, che non si affronta con il silenzio assordante di certezze precostituite.
È salutare pensare che il mondo, da che mondo è mondo, va avanti  imperterrito con o senza di noi. E che la morte (degli altri) ci accompagni lungo il cammino entusiasmante che ci siamo abituati a chiamare vita.

Un saluto da Selva e dal Sassolungo silente ammantato di neve.
Marco Forni


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