sono un fisico matematico e forse per deformazione professionale ho un concetto della morte molto diverso da quello corrente. Proverò a spiegarlo.
Ecco, io sostengo che la morte è un fenomeno come tutti gli altri: considerarlo un
unicum è un
bias, comprensibilissimo, ma pur sempre un
bias.
Gli uomini nel corso dei millenni sviluppano, in corrispondenza alle loro esperienze empiriche, delle idee che ritengono descrivere oggettivamente la realtà. Ora, prescindendo dal fatto che la realtà è già essa stessa una di quelle idee, è facile rendersi conto che questa inevitabile costruzione della mente umana è solo un modo soggettivo e convenzionale di descrivere la natura.
Prima di Einstein, per fare un esempio, nessun fisico aveva neppure postulato che il tempo fosse indipendente dal sistema di riferimento. Voglio dire che tale indipendenza era talmente radicata nel profondo della mente dell’osservatore che nessuno pensò mai neppure di postularla.
Eppure ecco irrompere nella scienza una rivoluzione straordinaria: il tempo dipende dal sistema di riferimento! Certo tale dipendenza può essere osservata solo in casi lontani dall’esperienza dell’uomo, ma a noi importa il concetto.
Questo esempio, uno dei mille, ci dice che le convinzioni che si radicano nella mente umana sono apparenze.
Tutto nasce e tutto muore”.
Ancora una irrinunciabile convinzione. In realtà è solo una nostra idea basata sull’esperienza comune, cioè basata sul nulla.
La morte - che a noi sembra essere un fenomeno unico - è semplicemente un fenomeno: come il fulmine, la pioggia, la nascita di un gatto.
Noi vi abbiamo - per ovvi motivi - ricamato sopra nel corso dei millenni ma io sono persuaso che essendo un fenomeno come tutti gli altri potrà un giorno essere compreso, governato e per così dire "sconfitto".
Non condivido pertanto la sua concezione della morte riassunta dall’aforisma di Michel Foucault:
Noi non moriamo perché ci ammaliamo, ma ci ammaliamo perché fondamentalmente dobbiamo morire ”.
In questo pensiero c’è il fossile* di un ragionamento deterministico che combattiamo aspramente in altri campi, per esempio nella religione.
È lo stesso bias che ci ha indotto a pensare ad una causa causarum, ad un motore immobile.
Non piove perché la pioggia serve per far crescere l’erba. Come ben spiega Taleb nel suo Giocati dal caso** l’uomo tende inevitabilmente a porre rapporti di causa ed effetto anche laddove non ce ne sono, laddove il caso regna sovrano. Ed anche questo bias è così radicato nell’uomo che un genio come Einstein ebbe a dire “Dio non gioca a dadi” quando la meccanica quantistica annunciò la fine del determinismo nella fisica.
Infine caro Prof. Galimberti lei ha ripetuto spesso - lo fa anche nell'
articolo in cui cita Foucault - che l’uomo ha inventato Dio per dare un
senso alla sua esistenza e in generale a quella dell’Universo intero.
Ma invece non c’è nessun senso.
Ed io sono d’accordo con lei.
Ma allora non è contraddittorio reintrodurre dalla finestra questo senso scacciato dalla porta?
Volere attribuire un senso alla morte e quindi una oggettiva volontà deterministica della natura è un’operazione assolutamente omologa alla creazione di un dio.
Quindi per coerenza se si rifiuta il senso lo si deve fare fino in fondo.
Naturalmente sono pronto a rimettere in discussione l'argomento poiché sono conscio del fatto che - per citare ancora una volta il grande Albert - “È difficile dare un'occhiata alle carte di Dio”
Nel ringraziarla per la sua attenzione la saluto affettuosamente e con grande stima.
Prof. Woland
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*Mi rendo conto che così dicendo metto in discussione il secondo principio della termodinamica - e vi assicuro che la circostanza mi turba - ma non rinuncio alla mia intuizione e credo in un'altra rivoluzione copernicana.
**Giocati dal caso. Il ruolo nascosto della fortuna nella finanza e nella vita (Il Saggiatore,2003).
Nassim N. Taleb insegna Scienze dell'incertezza alla University of Massachusetts.
Giocati da caso, che lo ha reso noto in tutto il mondo, è stato definito da Fortune "uno dei libri più intelligenti di tutti i tempi".