[Il Prof. Woland per La Città Invisibile]
Uno dei punti più controversi della epocale riforma della giustizia del governo Berlusconi è l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento da parte del pubblico ministero. In altre parole, il PM non potrà ricorrere in appello contro una sentenza di assoluzione.
Classico esempio di quella che si chiama ‘coazione a ripetere’.
Già nel 2006 infatti - benché rinviata al Parlamento dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, che manifestava seri dubbi sulla sua costituzionalità - fu approvata la cosiddetta
legge Pecorella, che sostanzialmente (art.593) dichiarava appellabili soltanto le sentenze di condanna.
In un articolo dal titolo “
Appello, ecco perché si viola la Costituzione”, apparso nel gennaio 2006 su Repubblica, il giurista
Franco Cordero, che studia procedura penale da oltre mezzo secolo, dimostrava, direi matematicamente, che la legge era incoerente nel nostro ordinamento giuridico e, soprattutto, era
incostituzionale.
Gli argomenti di Cordero erano impeccabili e infatti la legge Pecorella fu dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale (
6 febbraio 2007 n.26).
Ora, come preannunciato, la si ripresenta. Per la serie “a volte ritornano”.
Puntualmente, di nuovo dalle pagine di Repubblica, Franco Cordero ribadisce il suo pensiero su tale disegno di legge, che definisce “un’idea graziosamente asinina”.
1. La norma è incostituzionale perché viola l´
art. 111 Cost., c. 2, che “garantendo pari risorse alle parti” (accusa e difesa)
esclude proscioglimenti inappellabili: sarebbe monco quel contraddittorio dove l'imputato soccombente può appellare e l’accusatore no.
2. Taluni invocano a sostegno di tale norma la circostanza che essa vige negli ordinamenti anglosassoni (
common law): negli Usa e nel Regno Unito l’accusa non può appellare.
Il fatto è che in quei paesi i verdetti sono emessi da una giuria popolare: un “consesso di dodici teste” che ha sostituito l’arcaico iudicium Dei. I dodici giurati danno voce ad una infallibile anima comunitaria: ovvio che tali verdetti non siano ripetibili, come non lo erano i duelli, le ordalie e i giuramenti purgatori ossia decisioni a fondamento non razionale (boutade: il popolo urla Barabba libero e Ponzio Pilato ricorre in appello?!).
Nel nostro ordinamento invece la sentenza è un sapere tecnico. Si tratta di interpretare la legge non di pronunciare un atto oracolare.
Ecco dunque la necessità di un secondo giudizio: l’appello, strumento romano, mira al rifacimento critico e se la condanna è appellabile lo deve essere anche il proscioglimento. L’errore giudiziario, infatti, ha due possibili facce.
L’appello rappresenta dunque la possibilità di riparare alla malafede (iniquitas) o all’errore (imperitia) dei giudici.
Fin qui Cordero.
A margine mi sembra opportuno chiarire una circostanza.
Non dobbiamo immaginare lo stato come un persecutore e l’imputato come un cittadino caduto per disgrazia nelle maglie della giustizia: se il poveretto scampa la prima volta sarebbe iniquo perseguitarlo ancora. L’imputato, infatti, può essere un colpevole assolto, in primo grado, per errore o malafede.
In questo caso si può sperare nella riforma della sentenza.
Il PM, poi, non va considerato solo un accusatore, egli è anche il difensore delle vittime.
Sì, le vittime - con le loro aspettative di giustizia - che spesso in questo discorso vengono dimenticate. Negare la possibilità, nei casi dubbi naturalmente, di un nuovo giudizio (magari anche più accurato, dal momento che pesa su di esso la prima sentenza assolutoria) sarebbe certamente un errore; come lo è considerare il PM, tout court, un persecutore, dimenticando i veri protagonisti del processo: le vittime, appunto.
Come andrà a finire? Stavolta qualcuno ascolterà le parole di Cordero?
Purtroppo, per dirla con Freud, Die Stimme der Vernunft ist leise, “la voce della ragione è flebile”.
Come la speranza in questi tempi bui.
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Proscioglimento senza appello: un'idea graziosamente asinina.