Benvenuti nella città invisibile, ma non silente!

La città invisibile è una contraddizione in termini. Se una città esiste, con le sue case, le strade, i lampioni, gli abitanti, come può essere invisibile?! La città invisibile però c’è: è dentro ognuno di noi. Le fondamenta delle sue case sono quello che abbiamo costruito fino ad oggi, le nostre esperienze passate, gli avvenimenti della nostra vita. I mattoni delle case sono i nostri sogni, le aspettative, le speranze, tutto ciò che vorremmo fosse, domani, presto o tardi che sia. Le vie della città invisibile sono i nostri pensieri, che si ramificano innervandosi e collegano case, ponti, quartieri, costituendo una fitta rete di scambi e connessioni. La città invisibile è lo spazio vivo in cui ognuno si sente quello che è, ed è libero di esprimersi, di sognare, di dire “no”, persino di creare mondi diversi, realtà parallele: con la speranza che quel tesoro invisibile custodito dentro ognuno di noi possa rappresentare la fiaccola del cambiamento e si riesca a passarne, tutti insieme, il testimone. La via per riuscirci, a mio parere, è quella indicata da Italo Calvino: “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio".

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martedì 5 aprile 2011

Ai 314 parlamentari del sì al conflitto di attribuzioni: una dedica firmata Teofrasto.

Conflitto di attribuzioni: la Camera vota sì. Un'altra pagina buia.

E' andata.

La Camera, come ampiamente previsto, ha votato sì al conflitto di attribuzioni riguardo al Rubygate: viene dunque sancita ufficialmente la dichiarazione di guerra contro il Tribunale di Milano sulla legittimità a trattare il caso Ruby, questione su cui dovrà ora pronunciarsi la Corte Costituzionale.

Tutto questo abietto teatrino parlamentare è iniziato il 3 febbraio scorso, quando la maggioranza decise indegnamente di sposare, al solito come un sol uomo, l'ultima di una serie infinita di versioni sulla vicenda, la versione cioè secondo cui Berlusconi fece la famigerata telefonata alla questura credendo che Ruby fosse la nipote di Mubarak.

Ai 314 parlamentari che oggi hanno votato sì, vorrei dedicare le parole di un sommo dell'antichità, Teofrasto.

Teofrasto, studioso dal multiforme ingegno dell'Atene del IV secolo a.C., fu prima discepolo di Platone e poi di Aristotele, dal quale fu designato suo successore alla guida del Liceo.
Il suo nome era in realtà Tirtamo, ma venne ribattezzato come Teofrasto (che in greco significa "dall'eloquio divino") proprio da Aristotele, in onore della sua capacità oratoria.
Non proprio il primo venuto, insomma.
Morì a 84 anni, lamentandosi, come ricorda Cicerone (Tuscolanae Disputationes, 3, 69) di morire proprio quando cominciava ad avere una visione del mondo e della vita sufficientemente vasta.

Poco ci è rimasto dei suoi numerosissimi scritti. 

Tra questi, una deliziosa opera morale intitolata "I caratteri" (unicum nel suo genere), una disamina godibilissima dei più ricorrenti "tipi umani" dell'Atene dei tempi.

Ai nostri valenti 314 parlamentari della maggioranza, dunque - e se mi permettete a tutti coloro i quali fingono di credere (o peggio ancora credono davvero) all'indecente panzana della nipote di Mubarak - dedico il carattere teofrasteo "simpatia per i furfanti" (Caratteri, XXIX)
Ecco le parole del filosofo:
La simpatia per i furfanti è in fondo un desiderio di bassezza morale; e l'uomo che ha simpatia per i furfanti è un tale che trova il modo di frequentare persone che hanno subìto condanne e sono state giudicate colpevoli in processi politici, e ritiene, frequentando costoro, di poter diventare più furbo e più temuto. E della gente perbene dice: «Lo è secondo come gira il vento», e afferma «Nessuno è onesto, sono tutti uguali» mentre del furfante eccepisce: «Lui sì che è un galantuomo!». Ed afferma che il malvagio è veramente libero, se si voglia venire alla prova dei fatti; e mentre per il resto ammette che su di lui la gente dice la verità, sostiene che di lui si disconoscono certi suoi pregi. Afferma, infatti, che è un uomo ben fornito d'ingegno, generoso con gli amici e scaltro. E si sbraccia a difenderlo, sostenendo che non ha mai incontrato una persona di maggiore abilità. E parteggia per lui, quando questi parla nell'assemblea o è processato in tribunale; ed è capace di dire ai giurati «Non l'uomo bisogna giudicare, ma il fatto in sé». E asserisce che quello è il fedele cane del popolo, giacché è lui che fa la guardia contro chi tenta di sopraffarlo, ed esclama: «Non avremo mai uomini che si daranno pena del bene comune, se lasceremo rovinare uomini di tal fatta!». E non ha scrupolo di assumere il patrocinio di mascalzoni, di sedere tra i giurati nei tribunali in cause losche e, se deve lui stesso giudicare una causa, di interpretare nel senso peggiore gli argomenti addotti dalle parti contendenti.

Come vedete, cari parlamentari, rappresentate la perfetta discendenza di illustrissimi avi vissuti ai tempi dei tempi, oltre un paio di millenni or sono.

Che l'umanità, dopo decine di secoli di "progresso", non sia riuscita a discostarsi quasi per nulla da certe tipologie caratteriali non è certo cosa di cui andare fieri.

E fa dubitare non poco, purtroppo, della capacità del genere umano di progredire davvero.


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