Il Festival di Cannes si è concluso con l'assegnazione della Palma d'Oro al film The Tree of Life del regista statunitense Terence Malick (autore dell'indimenticabile The Thin Red Line).
Il premio, una volta tanto, non ha suscitato critiche o lamentele (anche il nostro Paolo Sorrentino, in gara col suo This must be the place, aveva dichiarato «È stata una crudeltà mettere in concorso il film di Malick. È come scendere in campo e scoprire che devi giocare contro Maradona»).
Ho visto il film e devo dire che si tratta di un'opera davvero straordinaria, nel significato etimologico dell'aggettivo.
Grande cinema.
A me interessa qui fare due osservazioni sulla religione e la famiglia.
Queste due istituzioni, cardini della storia dell'umanità, escono, a mio parere, davvero malconce dopo il trattamento Malick.
Dio appare lontano ed insensibile agli eventi umani: mentre il piccolo uomo lo prega, il regista - con una serie di immagini stupende che vanno dai mari alle stelle, dai vulcani ai dinosauri, dalle colonie di batteri ai deserti e alle foreste - ti comunica l'insensatezza di quelle preghiere.
L'uomo è un minuscolo essere del tutto insignificante nell'immensità dell'Universo e le immagini di Malick ne sono una spietata dimostrazione.
Il bimbo, protagonista del film, è schiacciato dal peso di una religione cupa ed ossessiva: la presenza di un Dio che va temuto e continuamente ringraziato è insopportabile.
Nulla è comprensibile per la mente del bambino che, dinanzi a lutti ed eventi inaccettabili, dice al Signore: «Perché dovrei essere buono io se tu non lo sei?».
La famiglia poi è altrettanto angosciante. Il padre è un uomo frustrato che spera, con un educazione rigida e severa, di far crescere i figli forti e vincenti. Suscita così solo l'odio del bambino, che anche in questo caso non capisce e dice al fratello: « Perché gli adulti pretendono da noi le cose che loro stessi non fanno?»
Dovrebbe addolcire il quadro una madre tenera ed affettuosa, che invece è talmente priva di carattere da sembrare 'una bella statuina'.
Il finale del film vorrebbe tentare una conciliazione in extremis di sentimenti e risentimenti, ma ormai il messaggio è partito:
Voce dal sen fuggita
poi richiamar non vale;
non si trattien lo strale
quando dall'arco uscì.
(Metastasio)
P.P. [Post Post]
Mi rendo conto che le mie impressioni sono piuttosto isolate nel panorama generale (molti critici hanno inneggiato al misticismo del film). Peraltro è probabile che l'intento comunicativo di Malick non coincida con l'esito che ha prodotto in me. Ma l'opera, una volta licenziata, non appartiene più al suo autore e può accadere, soprattutto coi capolavori, che parli una lingua a lui sconosciuta.
Proprio per questo, mi piacerebbe molto conoscere il vostro parere.
Aggiornamento del 3 giugno 2011
Su la Repubblica di oggi Corrado Augias rispondendo ad un lettore scrive: "Non credo che Malick conosca Leopardi, eppure il tema del dolore e dell'impassibilità della natura di fronte alle pene degli esseri umani è trattato in maniera assai simile nell'uno e nell'altro. Si tratta di una visione che deve di necessità escludere dio, quanto meno la divinità come è stata disegnata ed intesa nel cristianesimo. Non c'è redenzione né provvidenza in questa visione dell'esistenza, i personaggi sono disperati e soli, il rapporto con la vita appare estremo."
Sottoscrivo decisamente questo giudizio: forse le mie impressioni sono meno isolate di quel che credessi.
Controcorrente: Dio e famiglia nel capolavoro di Malick.